Con lo scioglimento delle Camere e l’individuazione della data in cui si terranno le elezioni termina l’esperienza del governo presieduto da Mario Draghi. Un uomo di indubbio spessore e indiscusso prestigio internazionale, tra i pochi italiani che in questi anni hanno avuto ruoli di primo piano fuori dai confini nazionali. Da tempo considerato una «riserva della Repubblica», l’ex governatore della Banca d’Italia ed ex presidente della Banca centrale europea era stato chiamato, dopo la caduta del secondo governo Conte, a guidare una compagine concepita a prescindere da una «formula politica», secondo le indicazioni del presidente della Repubblica. Si trattava in sostanza di un governo di unità nazionale, reso necessario dal fallimento di due maggioranze di orientamento opposto, ciascuna delle quali faceva però perno sul M5S, che aveva ricevuto un vasto consenso elettorale nel 2018.
La chiamata di Draghi era maturata sotto il segno di una doppia crisi legata al Covid-19: quella sanitaria, che richiedeva interventi di contenimento e prevenzione delle infezioni, e quella economica, conseguenza dell’impatto della pandemia sulle attività produttive. Forte era, in diversi ambienti, la preoccupazione che il suo predecessore a Palazzo Chigi non avesse i requisiti necessari per portare a termine questa missione, cruciale per il futuro del Paese. Per via della sua esperienza e della sua autorevolezza, Draghi era apparso la soluzione più adatta per guidare un governo che portasse l’Italia fuori dall’emergenza, un punto di riferimento per lo sforzo imponente richiesto dal rilancio dell’economia.
L’insediamento di Draghi fu salutato con entusiasmo da buona parte della stampa e delle forze politiche. Le poche voci dissenzienti vennero soprattutto dalle estreme, sia a destra sia a sinistra. In particolare, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, diede segnali di voler cogliere l’occasione offerta dall’essere alla guida dell’unica significativa forza di opposizione rimasta in Parlamento per puntare sull’insuccesso del tentativo Draghi, e sulla prospettiva di elezioni anticipate. Confortata in questa scommessa da sondaggi che accreditavano FdI come in crescita rispetto alle forze di destra che invece avevano deciso di dare il proprio sostegno al nuovo governo.
Le speranze della Meloni non erano del tutto infondate. Pur avendo una maggioranza molto ampia, un sostegno incondizionato da parte dei principali quotidiani e un notevole prestigio personale, il nuovo presidente del Consiglio non aveva alcuna esperienza di politica parlamentare, dei suoi riti e delle sue insidie. Consapevole della peculiarità del mandato ricevuto – e forse anche per inclinazione personale – Draghi scelse uno stile di comunicazione asciutto, che strideva con quello «espansivo» del suo predecessore, ma che per molti, incluso chi scrive, costituiva un salutare ritorno alla misura che dovrebbe caratterizzare il dialogo del capo dell’esecutivo con il Paese. Specie quando presiede un governo di unità nazionale. Sia nel dire sia nel non dire, Draghi trasmetteva un senso di consapevolezza della gravità del momento e della necessità di agire con fermezza. Anche quando ci fu qualche infelicità, essa venne ben tollerata dall’opinione pubblica, che nel complesso sembrava apprezzare la prospettiva di un ritorno alla normalità, forse lento, ma finalmente accessibile.
La scelta della sobrietà comunicativa da parte di Draghi doveva tuttavia fare i conti con le inquietudini delle forze politiche che sostenevano il suo governo. Specie quelle interne a M5S, Lega e Forza Italia che facevano più fatica a immedesimarsi con ciò che il nuovo presidente del Consiglio rappresentava sul piano simbolico (l’Europa dei mercati e della disciplina di bilancio, il cosmopolitismo liberale del post-Ottantanove, la politica «light» dei centristi). Pur non rispondendo a una «formula politica», il governo Draghi non era infatti un esecutivo di tecnici. Molti dicasteri erano affidati a figure di primo piano dei partiti della maggioranza, che inevitabilmente finivano per fare il controcanto rispetto al governo, se le decisioni finali prese dal premier entravano in tensione con considerazioni ideali, o con esigenze di strategia politica, care a ministri e sottosegretari. L’effetto complessivo di questa dialettica talvolta ha indebolito l’immagine di Draghi rispetto all’opinione pubblica. In qualche circostanza si è avuta l’impressione che certe esigenze finissero per pesare più di altre, come mostrano i diversi esiti della riforma del catasto e di quella del reddito di cittadinanza. In entrambi i casi l’impressione che fossero le istanze della destra a prevalere su quelle della sinistra non era priva di fondamento, e il dubbio era destinato a rimanere tale perché il distacco di Draghi dai partiti di fatto gli impediva di entrare nel merito di dissensi politici. Con il passare del tempo, questo è diventato verosimilmente un problema, anche se nessuno aveva il coraggio di porlo e di affrontarlo in pubblico come sarebbe stato opportuno.
Il distacco di Draghi dai partiti di fatto gli impediva di entrare nel merito di dissensi politici. E con il passare del tempo questo è diventato verosimilmente un problema
La difficoltà di tenere in equilibrio il peculiare esperimento del governo Draghi è diventata più evidente con il passare dei mesi. Anche in ragione di eventi imprevisti – per quanto non del tutto imprevedibili – che hanno mutato notevolmente il quadro internazionale. La speranza che i vaccini avrebbero dato un contributo decisivo a sconfiggere il virus si è rivelata infondata. Le mutazioni del Covid-19 si sono mostrate straordinariamente duttili nell’eludere gli strumenti fino ad ora individuati per combatterle, e ci avviamo ormai alla terza estate di convivenza con la pandemia senza avere alcuna certezza riguardo al suo definitivo superamento. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, poi, ha innescato una serie di reazioni a catena che stanno scuotendo gli equilibri strategici, il sistema produttivo e la stabilità politica di diversi Paesi. Draghi non si è tirato indietro di fronte a queste sfide, reagendo prontamente, anche se non sempre in modo risolutivo. Le tensioni che sono emerse – per esempio sullo smart working, sulle politiche per far fronte alla crisi ambientale, o sul sostegno alla difesa dell’Ucraina dall’invasione – hanno scavato solchi che nessuno poteva colmare, in quanto il governo era nato con una missione, ma privo di un progetto politico e di una visione coerente.
Un poco alla volta sulle spalle di Draghi si è accumulato non soltanto il peso di decisioni spesso drammatiche, da far tremare i polsi a chiunque, ma anche quello di aspettative di vario genere che non potevano essere soddisfatte nelle circostanze date. Da un lato certi settori della società, e uno schieramento politico trasversale e molto influente sui mezzi di informazione, spingevano perché Draghi desse un’impronta sempre più politica al suo governo, facendo leva sul Pnrr per attuare riforme strutturali mai realizzate, anche perché prive del consenso politico che sarebbe stato necessario per portarle a compimento. Dall’altro, alcuni componenti dell’instabile formula che aveva dato vita alla maggioranza si collocavano in modo deciso a presidio di interessi e di richieste di protezione di segno diverso (concessioni balneari, tassisti, proprietari di immobili, piccole imprese, percettori di reddito di cittadinanza). Scelte in alcuni casi legittime, e comunque non di carattere tecnico. La sintesi politica, che appariva col passare del tempo sempre più indispensabile, se non altro per fare una selezione tra interessi e richieste incompatibili, in qualche modo rimaneva elusiva. In questa situazione di crescente tensione si giunge alla crisi e alla caduta del governo Draghi.
La sintesi politica, che appariva col passare del tempo sempre più indispensabile, se non altro per fare una selezione tra interessi e richieste incompatibili, in qualche modo rimaneva elusiva
Negli ultimi giorni si sono lette diverse ricostruzioni su cosa l’avrebbe provocata. A seconda del grado di partigianeria si accentuano le responsabilità dell’uno o dell’altro, ma è arduo affermare con chiara coscienza che ci sia una spiegazione del tutto convincente. Certamente è stato un passo falso di Conte, ansioso per i segnali di disfacimento del M5S, a dar fuoco alla miccia. Questa circostanza è stata colta da quei settori del mondo politico e del Paese che, per vari motivi, miravano all’annientamento del Movimento e alla sua espulsione dalla maggioranza. La realizzazione di questo obiettivo avrebbe infatti sciolto il nodo della «formula politica», mettendo Draghi alla guida di una maggioranza coesa in grado di portare a termine il tipo di interventi favoriti da questi ambienti. La formula ideale per questo progetto sarebbe stata infatti quella di un governo centrista, che guarda alla destra «responsabile», sensibile alle esigenze delle imprese e dei «ceti produttivi». Non è chiaro fino a che punto Draghi condividesse questo disegno, e quanto invece lo accettasse per senso del dovere. Sta di fatto che in qualche misura, presentando le dimissioni e assecondando l’indicazione del presidente della Repubblica di «parlamentarizzare» la crisi, il capo del governo ha assunto negli ultimi giorni un profilo più politico. Questa postura, tuttavia, non è apparsa del tutto convincente, e soprattutto ha verosimilmente messo in allarme i settori della Lega e di Forza Italia meno vicini al capo del governo, che si sono sentiti minacciati da una prospettiva centrista potenzialmente egemonizzata dal Pd, che avrebbe ridimensionato il peso della destra (Giorgia Meloni era destinata infatti a rimanere fuori).
Di qui, probabilmente, la decisione «a sorpresa» di sfilarsi e la conferma delle dimissioni da parte di Draghi. L’esito di questa sequenza di azioni e reazioni – mal pensate e peggio attuate – potrebbe rivelarsi disastroso: anche se il governo rimane in carica per lo svolgimento dell’ordinaria amministrazione (nozione, come tutte nel diritto costituzionale, da interpretare con saggezza), è chiaro che a questo punto il ruolo di Draghi risulta, almeno per il momento, ridimensionato. E questo, tutto considerato, e nonostante le critiche che si potevano fare all’esecutivo da lui guidato, non è un bene.
Comincia in queste ore una campagna elettorale che minaccia di essere «nasty, brutish and short». Dai primi segnali appare chiaro che tutti i contendenti cercheranno di imporre agli elettori una visione di assoluti che si contrappongono. Già si fa sfoggio e spreco negli editoriali e nei talk show di astrazioni che certo non acquistano maggiore forza solo perché evocate con enfasi crescente. Si profila una scelta tra il peggio e il peggiore, che corre il rischio di consegnarci o un Parlamento dominato dalla destra nazionalista (scenario che appare attualmente più probabile) oppure uno presidiato a fatica da un centrismo privo di idee e incapace di parlare a settori sempre più ampi delle nostre società. Lo stesso incubo che turba le notti dei liberali a Londra, a Washington e a Parigi.
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