Confusione e improvvisazione formano la cifra stilistica di questa fase politica: Loredana Sciolla e Bruno Simili hanno fatto bene a farne oggetto di critica. Ma non c’è soltanto confusione e improvvisazione. In uno dei tanti campi d’intervento toccati dalla manovra anti-crisi il governo ha deliberato con lucidità, determinazione e coerenza. Visto il coro delle critiche che si è levato contro il decreto del 13 agosto, la cosa ha del sensazionale. Eppure, nessuno l’ha notata e messa in evidenza. Come se la tematica riguardasse un aspetto marginale della vita di relazione e della stessa democrazia. Si tratta invece del lavoro – a cominciare da quello dipendente, che resta quello dominante anche nell’era post-industriale . Del suo trattamento economico-normativo. Della sua rappresentanza sindacale.
Poiché in proposito i mass media hanno finora dato notizie imprecise e approssimative, per tentare di informare l’opinione pubblica la tecnica di gran lunga preferibile consiste nel cedere la parola al governo.
“1. I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ovvero dalle rappresentanze sindacali operanti in azienda possono realizzare specifiche intese finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività.
2. Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione incluse quelle relative: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell’orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite Iva, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio.
3. Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori”.
L’enunciato normativo è succinto. Ciononostante, esigerebbe un commento troppo ricco di argomenti per essere contenuto nello spazio qui disponibile. Mi limiterò quindi a fornire la traccia per la comprensione del testo, senza formulare valutazioni: confido che basteranno quelle implicite.
a) Premesso che la dizione linguistica “specifiche intese” sta per “accordi aziendali o locali peggiorativi degli standard fissati dalla legislazione e/o dalla contrattazione collettiva nazionale”, il decreto autorizza a stipularli non solo i sindacati confederali, ma anche “le rappresentanze sindacali operanti in azienda”: tutte, ma proprio tutte. Indistintamente. Come dire: nel clima di disunione sindacale che ha caratterizzato gli ultimi due anni e con la persistente minaccia di un suo ritorno dopo l’intesa interconfederale del 28 giugno, la prospettiva di una balcanizzazione delle relazioni industriali piace al governo.
b) La latitudine della derogabilità è praticamente illimitata: l’unica eccezione concerne “il licenziamento discriminatorio e il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio”. Pertanto, ogni azienda – grande, media, piccola – applicherà ai propri dipendenti le regole che ha negoziato con le rappresentanze sindacali che ci stanno. Le più collaborative o le più deboli. Come dire: l’istanza egualitaria che percorre dalle origini il mondo del lavoro non è più un valore per l’ ordinamento. E’ espulsa, perché è la malattia da curare.
c) Il 28 giugno di quest’anno è stata raggiunta un’intesa tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil con la quale si è convenuto che
– “il contratto collettivo nazionale ha la funzione di garantire la certezza dei trattamenti economici e normativi per tutti i lavoratori del settore ovunque impiegati nel territorio nazionale”;
– la legittimazione a negoziare a livello nazionale è subordinata alla certificazione della propria rappresentatività in base a regole mutuate dalla legislazione vigente da alcuni lustri nell’area del lavoro pubblico che stabilì la soglia minima da raggiungere.
– “La contrattazione collettiva aziendale si esercita per le materie delegate, in tutto o in parte, dal contratto collettivo di categoria”.
Di tutto ciò il decreto se ne infischia. Per i suoi autori, l’auto-regolazione sociale è un gioco privo di senso – amenoché non si svolga a livello periferico. A livello nazionale, anzi, rappresenta un intralcio allo sviluppo.
d) Tradizionalmente, la Fiat ha ricevuto favori dai governi del nostro paese. Il governo attuale non fa eccezione. Infatti, le ha dato ciò che le parti sociali, malgrado la ritrovata unità d’intenti negoziali, non potevano darle: l’esplicita ratifica degli accordi da lei imposti nello stabilimento di Pomigliano e altrove. Il regalo ha preso la forma dell’attribuzione dell’efficacia ultra partes ai contratti collettivi con un metodo contrastante con la logica sottesa alla disposizione costituzionale sull’erga omnes della contrattazione collettiva; e ciò benché tale disposizione sia tuttora inattuata. Come dire: la spinta a liberalizzare la contrattazione aziendale ha comportato una chiassosa deroga alla stessa costituzione della Repubblica.
Dicevo in apertura che lucidità, determinazione e coerenza non sono del tutto assenti nel decreto-manovra. In effetti, è da dieci anni che il ministero del lavoro persegue una linea di politica del diritto univoca: distruggere il diritto del lavoro ereditato dal Novecento, cercando la complicità di sindacati la cui cultura gregaria li porta a ritenere che i lavoratori devono poter rinunciare ai loro diritti per conservare o trovare lavoro.
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