Non basteranno le 25 mila parole del decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 per tracciare il quadro della riforma in materia di occupazione e mercato del lavoro attuativa della legge delega del febbraio dello stesso anno. Il documento legislativo ha le caratteristiche di un work in progress tuttora in attesa che si concluda l’indispensabile processo di implementazione a lungo termine a cui parteciperà un elevato numero di soggetti pubblici e privati: a cominciare dai sindacati, all’autonomia contrattuale dei quali rinvia ripetutamente lo stesso legislatore, e dai giudici – inclusi quelli della Consulta che saranno chiamati a fronteggiare un contenzioso presumibilmente imponente a causa delle imperfezioni e delle prolissità del testo scritto.

Ciononostante, il senso complessivo della riforma è agevolmente riassumibile, ad uso e consumo della platea di lettori abituali di questa rivista, utilizzando le categorie interpretative e il linguaggio dell’antropologia giuridica; la quale, sebbene sia poco conosciuta e praticata da noi, non è altro che l’antropologia sociale e culturale come la vedono legislatori e interpreti.

Premesso che l’impianto di base del diritto del lavoro – ossia del più eurocentrico dei diritti nazionali – si è formato nel periodo tra le due guerre, mi affretto a informare che il modello di uomo che è dato ricavare dall’esperienza del fascismo giuridico non è più il povero cristo del decollo industriale che guardava l’homo oeconomicus dell’ideologia capitalistica con ammirazione e insieme con rancore. Ormai, è un uomo integrato in una società massificata, assistita, laboriosa dove non si sciopera e i treni viaggiano in orario. Un uomo docile e sottomesso. Tenace, ma mite. Un uomo che, dopo un burrascoso inizio, si è familiarizzato con l’etica del lavoro salariato ed ha metabolizzato il principio d’autorità, comportandosi da suddito ubbidiente dentro il luogo di lavoro e fuori.

Infatti, il Novecento è stato il secolo durante il quale, come scriveva Antonio Gramsci, si è compiuto il maggior sforzo collettivo per creare, con rapidità inaudita, «con una coscienza del fine mai vista nella storia» e quasi con ferocia «un tipo nuovo di lavoratore e di uomo». Come adesso dice Marco Revelli, il Novecento è stato il secolo dell’homo faber o, come preferisce dire Aris Accornero, «il secolo del Lavoro»: «tutti ci alzavamo alla medesima ora, tutti uniformati negli orari giornalieri, settimanali, annui» e tutti pensavamo che «la vita lavorativa si svolgesse su tutto l’orario giornaliero per tutti i giorni feriali della settimana in tutti i mesi lavorativi dell’anno, fino alla pensione».

Certo, era un itinerario esistenziale che poteva non piacere. Ma la cosa non impensieriva, perché esso era preordinato al raggiungimento della sola forma di cittadinanza sociale che il diritto del lavoro poteva realisticamente promettere al popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose; una cittadinanza che sarà chiamata «industriale». Un po’ perché (suppongo) odorava di petrolio e carbone, vapore di macchine e sudore, e un po’ perché la fabbrica fordista era uno dei grandi laboratori della socializzazione moderna.

Il descritto modello antropologico resisterà all’usura del tempo. Quando cominciai a studiarlo, più di quarant’anni fa, quello del lavoro era ancora il diritto dei contraenti deboli trattati col soffocante paternalismo che si addice a un capite deminutus, benché fossero più garantiti di prima dalle libertà civili, politiche e sindacali di cui si sarebbero serviti per sommare ai vantaggi della tutela legificata quelli dell’autotutela organizzata.

Se non sembrano innovare il modello antropologico di riferimento, tutte le costituzioni post-liberali lo collocano però in un contesto ricco di seducenti promesse di domani che cantano.

Il nuovo modello antropologico rimanda al cittadino che si obbliga per contratto a vestirsi da produttore subalterno per poter acquistare il pacco standard di beni e servizi il cui godimento gli consente di sentirsi un cittadino pleno iure

Radicale in effetti sarà la modificazione del patrimonio antropologico che, segnando la fine di una lunga pazienza, trapela dallo Statuto dei lavoratori: la chanson de geste di Cipputi, come ho voluto definirlo in precedenti occasioni. Il nuovo modello antropologico rimanda al cittadino che si obbliga per contratto a vestirsi da produttore subalterno per poter acquistare il pacco standard di beni e servizi il cui godimento gli consente di sentirsi un cittadino pleno iure, disposto forse a sacrificare qualcosa delle prerogative che gli spettano in quanto tale, ma in una misura che decresce a vista d’occhio. Non a caso, lo statuto si propone di sostituire all’autorità dell’imprenditore avvolta in un sentore di sacrestia un’autorità laicizzata che si basa sulla rilegittimazione dell’impresa mediante l’adeguamento dei suoi principi d’azione a tutti i valori di cui è portatore il fattore lavoro, anche a quelli non negoziabili né monetizzabili. «L’idea-madre dello statuto», secondo il compendioso commento di Luigi Mengoni, «è che l’organizzazione tecnico-produttiva dell’impresa deve modellarsi sull’uomo, e non viceversa». Come dire: lo statuto, più che una riforma, è una sfida al pensiero dominante che accredita come oggetto di culto i criteri di razionalità ed i parametri di efficienza che avevano assicurato il successo del fordismo. Non era mai accaduto che la glorificazione del lavoro, e del suo primato assoluto, fosse contestata con tanta durezza. Si finirà infatti per esagerare, prestando così il fianco alla critica di flirtare con l’antindustrialismo. Ma la critica era faziosa. Dimenticava che l’industrializzazione non era mai stata rispettosa dei diritti, sia collettivi sia individuali.

Lo scontro si assopisce più in fretta di quanto la sua violenza lasciasse presagire. Senza però giungere a un chiarimento definitivo.

Il fatto è che, negli ultimi due decenni del Novecento, si profila una nuova sfida, ancora più dirompente: i pilastri della coercizione uniformante si sgretolano e la liberalizzazione destrutturante dei modelli di comportamento genera un’imprevedibile antropologia sociale che, presto o tardi, leggi e contratti collettivi avrebbero dovuto interpretare senza più linee guida precostituite e condivise. Dalla rigidità si transita verso la flessibilità e, a partire dagli anni Ottanta, il diritto del lavoro inizia a sbriciolarsi in un cumulo disordinato di norme con l’inclinazione, per usare un’espressione insolitamente vivace uscita dalla penna irrequieta di un nostro giudice costituzionale, a «degradare al livello di gregge privo di pastore». In altri termini, il diritto del lavoro smette a poco a poco di funzionare come un sistema di pluralismo normativo polarizzato dalla vocazione egemonica del prototipo storico della transazione economica che permise l’avvento del capitalismo industriale.

Onestamente, però, non credevo che bisognasse ricominciare daccapo. Un po’ perché la micro-discontinuità è la costante della formazione storica del diritto del lavoro, specialmente per quanto attiene al diritto del contratto individuale di lavoro, e un po’ perché l’indesiderabilità di molti effetti di troppi e troppo veloci cambiamenti consigliava valutazioni tanto selettive quanto meditate.

La cittadinanza «industriosa». Vero è che «quando gli uomini si trovano di fronte ad una novità che li coglie impreparati, si affannano a cercare le parole per dare un nome all’ignoto» e, in casi del genere, come ha osservato con un filo di ironia l’autore del Secolo breve, spesso va a finire che «la parola chiave è la breve preposizione “dopo”, generalmente usata nella forma latina “post”, come prefisso del termine» usato in precedenza. A me invece pareva di avere trovato la parola adatta per designare il passaggio d’epoca che l’Europa stava vivendo. Infatti, anziché parlare di cittadinanza postindustriale, parecchio tempo fa ho proposto di parlare di cittadinanza industriosa.

Dite che è soltanto un gioco di parole? Beh, allora vi ricorderò quel che scriveva Herbert Spencer nel tardo Ottocento: «l’industrialismo» – scriveva – «non deve essere confuso con l’industriosità». Industrialismo infatti è un vocabolo che non designa situazioni caratterizzate soltanto dalla erogazione di ingenti quantità di lavoro; piuttosto, designa un certo modo di produrre che è diventato in fretta anche un certo modo di pensare. Casomai, fareste bene a dire che la mia proposta non è originale, perché il copyright della formula lessicale appartiene ad un grande giurista francese recentemente scomparso. Gérard Lyon-Caen era del parere che «on restera nécessairement industrieux, sinon industriel».

Del resto, la nozione di cittadinanza industriosa trova nelle costituzioni postliberali più sostegni che ostacoli. Prendiamo in mano la costituzione italiana e leggiamo insieme il suo art. 4: «la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che lo rendano effettivo». Ma, per favore, non fermiamoci, come di solito succede, al primo comma del disposto costituzionale. Leggiamo anche il secondo: «ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società». A questo punto, proviamo a reinterpretare la norma nella sua interezza, anziché scomporla artificialmente in disposizioni separate da una frattura che ne rende impossibile una lettura unificante. Proviamoci: inforcando lenti adeguate all’odierna complessità sociale, vedremo la norma riacquistare la compattezza che gli interpreti non vedevano. Perché?

Perché, è la convincente risposta di Ulrich Beck, «nella prima modernità dominava la figura del cittadino-lavoratore con l’accento non tanto sul cittadino quanto sul lavoratore. Tutto era legato al posto di lavoro retribuito. Il lavoro salariato costituiva la cruna dell’ago attraverso la quale tutti dovevano passare per poter essere presenti nella società come cittadini a pieno titolo. La condizione di cittadino derivava da quella di lavoratore». In effetti, se il lavoro era il passaporto per la cittadinanza, lavoro e cittadinanza formavano tuttavia un binomio che aveva la caratteristica instabilità di una barca con un elefante. Gli interpreti erano consenzienti o (il che è lo stesso) non se ne accorgevano nemmeno, perché declinavano il lavoro al singolare nell’ottica di un codice civile implementato da una ricca regolamentazione che collocava il contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato al centro d’un sistema di garanzie dal quale erano esclusi i lavori svolti sulla base di assetti contrattuali diversi.

La Costituzione si preoccupa soltanto di rimuovere situazioni soggettive di debolezza e disuguaglianza sostanziale comunque e dovunque si manifestino

Viceversa, la costituzione non conosce la dicotomia contratto di lavoro subordinato-contratto di lavoro autonomo. Come dire: mentre il codice civile ragiona in termini di modalità tecnico-giuridiche di svolgimento del lavoro, la Costituzione si preoccupa soltanto di rimuovere situazioni soggettive di debolezza e disuguaglianza sostanziale comunque e dovunque si manifestino.

Insomma, poiché i padri costituenti vollero che la Repubblica tutelasse «il lavoro in tutte le sua forme e applicazioni», è conforme alla nostra costituzione soltanto una concezione inclusiva del lavoro. Il più pronto ad aderirvi ed a valorizzarla è stato Massimo D’Antona. Persuaso che il diritto del lavoro sia un costrutto storico e non abbia nulla di ontologico, Massimo riteneva che la passione per la specie di lavoro più intensamente protetto nel Novecento avesse fatto perdere di vista il genere: ossia, «il lavoro senza aggettivi», il lavoro che si propone all’attenzione dei decisori di regole in quanto tale, il lavoro che – indipendentemente dallo schema contrattuale in cui è dedotto per essere utilizzato – condiziona il destino delle persone e, pur essendo privo della determinatezza storica che permette di riconoscervi il più durevole retaggio della civiltà industriale, contiene un loro progetto di vita.

 

[L'articolo completo, uscito sul numero 3/2004 del "Mulino", è acquistabile qui ed è scaricabile liberamente dagli utenti di rivisteweb]