La morte del giovane Andrea Papi, ucciso da un’orsa nei boschi del Trentino, in val di Sole, rende più che mai necessaria una riflessione sulle cause di questo tipo di incidenti, che presentano elementi comuni. Da un lato, una specie protetta, forzatamente reintrodotta in zone boschive dalle quali era assente da decenni; dall’altro lato un soggetto umano che si introduce in territori destinati a far da casa per quel ripopolamento, per quella protezione. Nel mezzo, lo strumento punitivo del diritto, che si presta a sanzionare l’orso – con la captivazione permanente o l’uccisione – per l’aver agito secondo quella che è la sua natura. Il corto circuito che l’ordinamento civile determina è evidente: richiamate queste specie perché selvatiche, le punisce in quanto tali.
Da molti anni sono anche stati denunciati gli errori di pianificazione umana che rendono pericolosamente ravvicinata la “frequentazione” tra orsi e umani, primo tra tutti il fatto che politiche di ripopolamento come il Life Ursus non abbiano tenuto in considerazione le esigenze più basilari della natura ursina: si è ad esempio lamentato più volte che l’area del Parco Adamello-Brenta fosse insufficiente a supportare una popolazione vitale di orsi sia in ragione del naturale corso riproduttivo, sia in virtù dell’inclinazione, soprattutto in fase riproduttiva, a spostarsi anche di parecchi chilometri.
Il corto circuito che l’ordinamento civile determina è evidente: richiamate queste specie perché selvatiche, le punisce in quanto tali
Il paradosso che si genera è inquietante: la reintroduzione degli orsi intende ricreare un equilibrio tra essere umano e “natura” ma finisce con l’alterarlo ancora di più, rivelando la sua strumentalità antropocentrica, a fini turistici e di ricreazione di una varietà allettante, affascinante, ma tragicamente dannosa per tutti, orsi, turisti, locali, amanti della montagna, contadini e allevatori. In questo modo, la pretesa di ristabilire una perduta armonia naturale provoca e ricrea un antagonismo tra animale umano e animale non umano ancora più aspro, e artificiale: se un tempo il rapporto tra questi due animali si risolveva fattualmente, a scapito dell’uno o dell’altro, oggi interviene uno strumento di mediazione e legittimazione della soppressione del secondo: la legge, la norma. Ma si tratta di un diritto che solo fittiziamente proclama il fine etico di proteggere animali a rischio di estinzione, poiché in realtà serve una logica tutta umana: la “protezione rigorosa” è subordinata al rispetto prioritario delle esigenze umane più disparate, come si legge dai testi di riferimento, a partire dalla legge n. 157 del 1992, sulla caccia, con il suo regolamento attuativo, fino al Piano interregionale per la conservazione degli orsi delle Alpi centro-orientali (Pacobace).
Ci si riferisce ai comportamenti animali con aggettivi qualificativi propri di quelli umani, al di fuori di un’attenta e mirata contemplazione di qualsivoglia specificità
Ciò che colpisce molto in quest’ultimo documento è il riferimento ai comportamenti animali con aggettivi qualificativi propri di quelli umani, al di fuori di un’attenta e mirata contemplazione di qualsivoglia specificità. Così, l’orso è denominato dannoso se procura danni materiali a beni materiali umani, se ha perso la naturale diffidenza verso l’uomo, se è attratto da fonti di cibo antropiche, è pericoloso quando dà adito alla presunzione, anche non attuale, che possa costituire una minaccia per esso, anche in quanto “confidente”. Tali caratteristiche definiscono un orso come problematico, e motivano l’applicazione di misure di sicurezza proprie del diritto penale. Come si vede, il diritto serve a giustificare la punizione dell’animale, colpevole di non aver rispettato le regole della convivenza civile. Dunque si presume che l’orso sia assimilabile al soggetto umano, e possa delinquere secondo le sue stesse logiche, vale a dire dolosamente, meritando l’esclusione da quello stesso consesso. Si finge di dimenticare che l’orso non è un umano, non è personificabile.
Oltretutto, si tratta di una personificazione a metà, incisiva quando volta a rinvenire gli estremi di una “colpa d’autore”, totalmente assente all’ora di offrire le garanzie che il diritto offre ai suoi cittadini e alle sue cittadine, prima tra tutte il contraddittorio e un giusto processo, con la rappresentanza di chi è sensibile alla causa e vuole difendere i diritti dell’antagonista umano.
Qui sta l’ulteriore problema: l’orso non ha diritti, il suo buon trattamento è subordinato a una scelta e a una concessione umana arbitrarie, che non incontrano un limite nel rispetto della soggettività giuridica del plantigrado. Dunque l’animale selvatico deve rimanere nel suo, non aggredire chi gli si avvicini – poco importa se avverte una minaccia per sé o per la sua prole – ma non deve nemmeno mostrarsi troppo confidente. È insomma costretto a muoversi in un recinto minato, dove la sua libertà di azione è limitatissima.
Ebbene, se proprio si vuole soggiogare l’orso al diritto umano, il minimo che si possa fare è assimilarlo davvero e pienamente a un cittadino che gode di diritti e garanzie. Con la precisazione che questi ultimi devono essere costruiti a partire dalla seria considerazione delle sue peculiarità di animale selvatico e dei relativi bisogni.
Difficilmente l’ordinamento giuridico, artificio umano nato per la preservazione della specie umana, potrà spogliarsi della sua logica antropocentrica. Ma è imprescindibile che, se vuole includere l’animale, disciplinandone la sua vita, debba sforzarsi di assumente il punto di vista interno di quest’ultimo, con ausilio della scienza veterinaria, dell’etologia, in un approccio multidisciplinare. È doveroso, insomma, che operi una inclusione autentica, non di facciata.
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