Un tema che in questi giorni ha molto impegnato il dibattito costituzionale ha riguardato la nozione di “ordinaria amministrazione” riferita come limite all’azione di un governo dimissionario. Ma cosa include e cosa esclude questa nozione nella temperie politica e costituzionale che il nostro Paese sta oggi attraversando? Le risposte che abbiamo sinora ascoltate sono state molto oscillanti e, talvolta, anche un po’ confuse. Da qui l’esigenza di fissare qualche punto fermo alla luce dei principi di fondo che reggono il nostro governo parlamentare.

Il primo punto attiene al fatto che il limite dell“ordinaria amministrazione” non compare nel nostro dettato costituzionale, ma scaturisce tradizionalmente come norma convenzionale sorretta dalle “best practices” del governo parlamentare. È indubbio, infatti, che in questa forma di governo l’esecutivo dimissionario viene a perdere una quota della propria legittimazione all’esercizio delle sue funzioni costituzionali per l’interruzione che si determina, in attesa delle nuove elezioni, nel circuito politico che, in condizioni normali, lega il governo al Parlamento e il Parlamento al corpo elettorale. Si tratta di una quota di legittimazione che in primo luogo riguarda, proprio per la natura del circuito democratico che viene a interrompersi, la funzione di indirizzo politico nella sua espressione più libera ed alta. Ma è anche indubbio che la linea di confine che viene a distinguere nelle funzioni del governo l’“ordinaria amministrazione” dall’indirizzo politico non è, sempre per sua natura, rigida bensì flessibile in quanto ancorata, proprio per l’assenza di una specifica previsione costituzionale, alle condizioni particolari del quadro politico entro cui il governo si trova di volta in volta a dover operare. E questo induce ad adottare, nella particolare congiuntura che oggi il nostro Paese sta attraversando, una lettura dell’“ordinaria amministrazione” diversa e per taluni aspetti più ampia di quella adottata in passato nel quadro di situazioni meno condizionate dalla presenza di stati di emergenza.

L’“ordinaria amministrazione” dall’indirizzo politico non è, sempre per sua natura, rigida bensì flessibile in quanto ancorata, proprio per l’assenza di una specifica previsione costituzionale

Del resto, sia il presidente della Repubblica, nella dichiarazione pubblica resa al momento della presa d’atto delle dimissioni del governo, sia lo stesso presidente del Consiglio, nella circolare adottata subito dopo la conferma delle proprie dimissioni, hanno chiaramente accennato a una definizione dei confini dell’“ordinaria amministrazione” diversa e notevolmente più ampia di quelle del passato attraverso il richiamo a due profili storicamente contingenti, ma sicuramente oggi ben fondati. Il primo profilo è che attualmente il governo si trova a dover affrontare, nella fase transitoria che precede le nuove elezioni, il permanere delle tre emergenze (economica, sanitaria e internazionale) insorte negli ultimi tempi e il cui prolungarsi potrebbe di volta in volta richiedere l’adozione di provvedimenti imposti dalla “necessità ed urgenza”. In relazione a questa particolare situazione è certo che il governo può disporre oggi, più che in passato, di un ampio potere di decretazione di urgenza là dove si manifestino nuovi stati di necessità. Il secondo profilo è che il governo Draghi – attraverso la definizione di un Pnrr, articolato anche come cronoprogramma, che il Parlamento ha condiviso e che l’Unione europea ha approvato – ha già posto le basi di un indirizzo politico legato a un vasto piano di riforme che ora va portato a compimento attraverso azioni che, in quanto attuative, non sono più di indirizzo, ma di “ordinaria amministrazione”. A questo si può aggiungere, infine, il fatto, non certo irrilevante sul piano costituzionale, che il governo attualmente in carica per il disbrigo degli affari correnti, è un organo che, per le caratteristiche molto peculiari della crisi in atto, sul piano formale non ha perso la fiducia parlamentare, una fiducia che da ultimo è stata anzi confermata sia pure in misura ridotta rispetto a quella originaria.

Al governo oggi in carica per l’esercizio dell’“ordinaria amministrazione” va riconosciuta la possibilità di impiegare strumenti di intervento ragionevolmente più ampi di quelli esercitati in passato

Alla luce di questi elementi, nuovi rispetto alle tradizioni maturate nelle precedenti crisi dei nostri governi parlamentari, si può quindi riconoscere che al governo oggi in carica per l’esercizio dell’“ordinaria amministrazione” va riconosciuta la possibilità di impiegare strumenti di intervento ragionevolmente più ampi di quelli esercitati in passato nel corso delle precedenti crisi di governo. E questo con riferimento sia alla decretazione di urgenza (rispetto a cui le Camere ancorché sciolte conservano il potere di conversione espressamente indicato nell’articolo 77 della Costituzione), sia alla legislazione delegata in attuazione di deleghe già approvate o in corso di approvazione, sia infine all’adozione di provvedimenti normativi e amministrativi destinati a completare ed attuare il piano varato nelle sue linee portanti con l’approvazione del Pnrr. Si tratta di strumenti che non apportano varianti di rilievo ad un indirizzo politico già adottato sia dal Parlamento che dal governo e rispetto a cui le Camere ancorché sciolte conservano il loro naturale potere di controllo.