È tutta questione di tempi. Quel mondo ordinato e scandito da tempi quotidiani (otto ore di lavoro, lunghi spostamenti, poi ferie e tempo libero), dalle stagioni della vita (occupazione poi pensionamento), da stipendio e risparmio (vita di lavoro e di sacrificio, di compromesso e di abnegazione e poi vita liberata dal lavoro in cui ci si può finalmente dedicare ai viaggi e alle proprie passioni) è almeno in parte finito. Non si sono solo allungati il tempo e l’aspettativa di vita, ma si sta ridefinendo un continuum di vita e di lavoro intrecciati, che potenzialmente perdurano fino all’età più avanzata. È sempre stato così per le professioni intellettuali e creative, ma oggi tende a esserlo anche per quasi tutte le altre.

Sta dunque cambiando il tempo del lavoro, tanto che si comincia a parlare di «società senza lavoro», un mondo in cui la nostra ricchezza potrebbe non dipendere più, come in passato, solo dalla nostra principale attività lavorativa; se cambiano le forme, i luoghi e la qualità del nostro lavorare, fino a immaginare lo smart-working come modalità prevalente, e se assistiamo a una contrazione fortissima degli spazi condivisi, emerge chiaramente una questione di senso: dove continueremo ad abitare le nostre vite?

Questi mesi di pandemia hanno impresso un cambiamento radicale dei tempi e dei luoghi. L’Italia che conosceremo nei prossimi mesi sarà diversa: genericamente più stanziale, con un’evidente crisi dei grandi sistemi metropolitani, vedrà la nascita di nuovi distretti economici locali, diffusi e digitali. Una situazione che potrebbe volgersi a favore delle città medie.

È una metafora temporale lo slogan politico più popolare degli ultimi mesi. La città del quarto d’ora – la «ville du quart d’heure» – formula coniata da Anne Hidalgo durante la sua campagna elettorale che l’ha vista riconfermata alla carica di sindaca di Parigi, è divenuta ormai l’unità di misura neo-vitruviana di ogni metropoli attenta al benessere dei propri cittadini.

Riporta la città alla sua dimensione più umana, fatta di isole e comunità solidali, nelle quali siano presenti scuole, servizi al cittadino, negozi e tutto quello che rende confortevole il vivere urbano, lasciando più possibile l’auto a casa. Un’esperienza che diventa modello cruciale di riferimento e di protezione collettiva nei momenti di crisi o di pericolo per la salute (un ripensamento profondo sull’urbanistica delle città avviene oggi come nell’Ottocento intorno ai temi della salute pubblica e dell’igiene sociale). È singolare come questo slogan sia entrato tanto facilmente nell’immaginario dei sindaci delle grandi metropoli, preoccupati di restituire le città alla loro dimensione di villaggio. Più facile a dirsi che a farsi, ovviamente.

Stupisce che nessuno abbia pensato che le «città del quarto d’ora» l’Italia già le abbia. Anzi, tutta la penisola può essere riletta come un reticolo di centri medi, ad alta qualità di vita, percorribili a piedi, che godono di relazioni di prossimità e scambio con il proprio territorio. Piccole città a misura d’uomo, si sarebbe detto un tempo. Le città medie entrano poco nella narrazione del Paese, tutti ne riconoscono il valore ma anche una certa naturale resistenza al cambiamento.

Il dibattito pubblico di queste settimane ama polarizzare il ragionamento, contrapponendo la vita affollata e più pericolosa delle metropoli (Roma, Milano, Napoli) a quella dei piccoli borghi e delle aree interne; continua a riproporre una geografia delle relazioni di stretta osservanza christalleriana che prevede una forte gerarchia tra centro più grande e centri minori, con un decrescere di servizi dal nucleo alla periferia, per cerchi concentrici dalla città ai comuni circonvicini; mette in competizione territori del Nord e del Sud. Le città medie, che pure avrebbero già i requisiti necessari – misura, accessibilità, coesione interna, reti – non compaiono mai.

 

[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 4/20, pp. 639-646. Il fascicolo è acquistabile qui]