In Italia il 2014 è iniziato con il tema del lavoro al centro dell’agenda politica. Il Jobs Act annunciato già a gennaio si fondava su quattro pilastri: 1) riduzione del cuneo fiscale; 2) politica industriale per il manifatturiero italiano e il made in Italy; 3) ricomposizione del mercato del lavoro tramite il contratto di lavoro a tutele progressive; 4) semplificazione delle norme sul lavoro.
Erano pilastri importanti e di buon auspicio per realizzare il cambio di verso annunciato. Ma dopo 90 giorni di governo Renzi, che cosa è rimasto di quell’annuncio?
Il primo pilastro è contrassegnato dal cartello “lavori in corso”. Il bonus degli 80 euro è appunto un bonus, non strutturale, e dalle coperture incerte. Dovrà divenire strutturale con la legge di stabilità del prossimo autunno. La riduzione dell’Irap è prevista nell’ordine del 10%, ma anche in tal caso non vi certezza sulle coperture. Tuttavia, sono passi significativi realizzati. Non avranno però effetti economici significativi nel breve periodo, come lo stesso Def2014 certifica.
Il secondo pilastro è stato purtroppo presto abbandonato, a meno che non si ritenga che politica industriale sia sinonimo di privatizzazioni. Vi è necessità invece di politica industriale pubblica per i settori strategici, sia tradizionali/maturi sia innovativi, per realizzare innovazioni nei processi e nei prodotti, nell’organizzazione e qualità del lavoro, in tecnologie verdi e conoscenza, quali fattori cardine per contrastare la stagnazione della produttività che frena sia la competitività delle imprese sia le retribuzioni dei lavoratori.
Il terzo pilastro è stato depotenziato e rinviato al disegno di legge delega, che, una volta approvata dal Parlamento, troverà attuazione forse nel 2015. Sarebbe stato auspicabile che con l’introduzione del contratto a tutele progressive si segnasse una discontinuità rispetto al passato, andando verso una radicale eliminazione del supermarket delle forme contrattuali per indurre le imprese a investire in capitale cognitivo e in innovazione organizzativa. Invece, si ipotizza l’introduzione in via sperimentale di una ulteriore modalità contrattuale, flessibile e graduale nelle tutele, che si aggiunge alle numerose forme esistenti, senza sostituirne alcuna.
Si è invece intervenuti a partire dal quarto pilastro, quello della semplificazione normativa sui contratti a tempo determinato e sull’apprendistato, declinando la semplificazione in termini di liberalizzazione. Molto si è già scritto su ciò. Qui ci preme sintetizzare alcune questioni.
Anzitutto, il rischio è che, come vari giuslavoristi hanno evidenziato, la semplificazione dia adito a un percorso di contenziosi a livello europeo, non solo nei tribunali del lavoro italiani, in quanto la revisione della a-causalità economico-organizzativa contrasterebbe con importanti direttive comunitarie che distinguono il contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato inteso come prevalente da quello a termine. La semplificazione mirava a eliminare i contenziosi in sede nazionale, ma in realtà rischia di proiettarli su dimensione europea. In secondo luogo, l’eliminazione della causalità, il meccanismo di proroghe e rinnovi legati alla mansione più che al lavoratore, le sanzioni pecuniarie, pongono il lavoratore stesso in una condizione di ulteriore debolezza nei confronti del datore di lavoro.
In aggiunta, altre obiezioni cruciali sono di tipo economico. In estrema sintesi, ne indichiamo tre. Primo, l’idea che con maggiore flessibilità contrattuale si consegua una riduzione della disoccupazione e un aumento dell’occupazione non trova supporto nell’evidenza empirica, come mostrano peraltro le stesse analisi condotte dall’Oecd. Questa idea si dimostra in verità una prima falsa credenza. Più che accrescere l’occupazione, sembra emergere una sostituzione tra (minore) occupazione stabile e (maggiore) occupazione instabile. Secondo, la maggiore flessibilità nei contratti a termine favorisce la ripetitività dei contratti più che la stabilizzazione degli stessi, senza peraltro che aumenti la durata complessiva dello status occupazionale, mentre si riduce la retribuzione percepita, come insegna anche l’esperienza spagnola. Quindi l’idea che maggiori opportunità per un lavoro a termine accrescano la probabilità che tale lavoro si trasformi in stabile risulta una seconda falsa credenza. Terzo, la maggiore flessibilità del rapporto di lavoro, in uscita oltre che in entrata garantita dai contratti a termine e dalle semplificazioni apportate ai contratti di apprendistato, non appare positivamente correlata alla produttività del lavoro ed alla sua crescita. Anzi se una relazione sussiste, è opposta a quella presunta, ovvero la riduzione delle protezioni all’impiego (minori tutele per il lavoratore) appare associata a riduzioni della produttività piuttosto che a un suo aumento. La ragione è rintracciabile nel fatto che forme contrattuali flessibili se da un lato possono favorire la mobilità del lavoro da imprese e industrie poco dinamiche verso quelle più dinamiche, dall’altro abbassano la propensione a innovare e investire sulla qualità del lavoro da parte delle imprese, le quali cercano piuttosto di trarre vantaggio dai minori costi del lavoro invece di accrescere la produttività. Per cui che la maggiore flessibilità del lavoro porti a più produttività è la terza falsa credenza.
Se questi sono i rischi che corre il nostro Paese nel proseguire lungo la strada della flessibilità del lavoro, peraltro comprovati dall’avere coniugato dalla fine degli anni Novanta dosi crescenti di deregolamentazione del mercato del lavoro con la progressiva stagnazione della produttività del lavoro, non sarebbe opportuno ripartire dalle potenzialità che potevano essere rintracciate nella versione annunciata del Jobs Act piuttosto che percorrere il declivio improntato dalla fallace idea della “precarietà espansiva”?
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