Lo scorso 4 dicembre è entrato in vigore il decreto legge su sicurezza e immigrazione (detto Salvini) a seguito della sua conversione in legge (approvazione definitiva: 28 novembre) e della promulgazione da parte del presidente della Repubblica Mattarella. I suoi contenuti sono disparati, essendo relativi a materie diverse quali immigrazione e sicurezza pubblica e sua disciplina organizzativa, e corrispondono ai tre titoli nei quali la normativa è articolata. Di particolare impatto – per l’intensità delle modifiche introdotte – sono le norme sul diritto d’asilo che intervengono su tutti i principali aspetti della materia: i titoli di soggiorno (con l’abrogazione della cosiddetta protezione umanitaria), l'iter per l’esame della domanda di protezione (con la previsione di una procedura accelerata alla frontiera e la formalizzazione legislativa dell’approccio “hot-spot”), l’organizzazione dell’accoglienza (con la previsione del trattenimento dei richiedenti asilo ai fini della loro identificazione – anche nei centri di permanenza per i rimpatri – e con la loro esclusione dal sistema d’accoglienza Sprar, d’ora in poi riservato ai soli titolari di protezione internazionale e ai minori stranieri non accompagnati).
Qual è la finalità che ha mosso l’iniziativa del governo? L’inasprimento di misure di deterrenza volte a rafforzare il contrasto all’immigrazione (non solo) irregolare a scopo securitario? Il peggioramento delle condizioni di vita per i richiedenti asilo e per i rifugiati per creare, all’opposto, insicurezza da usare a fini propagandistici? O, piuttosto, lo sviamento dell’opinione pubblica dalla questione sociale e dalla crisi economica blandendola con la promessa dell’immigrazione zero? Ciò che è certo è che si tratta di una legge-manifesto (al pari del "decreto dignità") che contrabbanda una riforma disorganica e di modesta applicazione per l’ennesima panacea di presunte impellenti esigenze avvertite dal popolo italiano: non la sicurezza sociale di chi è in una condizione disagiata o di chi rischia di caderci, ma un più rigido controllo di quei soggetti, gli immigrati, che – con la sola presenza sul nostro territorio – attentano alla sicurezza pubblica e al benessere collettivo. È una legge che approfondisce ulteriormente un solco già ampiamente tracciato da normative precedenti: legando a doppio filo l’immigrazione e la pubblica sicurezza, alimenta colpevolmente la diffidenza nei confronti degli immigrati e introduce nuove discriminazioni irragionevoli a loro danno, assecondando e rinfocolando l’immagine di essi come inferiori perché diseguali nei diritti.
Sotto il profilo della deterrenza, la legge, occupandosi solo di chi sia già giunto sul territorio italiano, integra la radicalizzazione della politica di non ingresso realizzata con la chiusura dei porti e dal governo apertamente rivendicata (si legga la relazione tecnica al decreto, dove “si evidenzia la riduzione già in atto dei flussi migratori”). È infatti nel quadro del corrente drastico calo del numero delle persone sbarcate (170.000 nel 2014, 153.000 nel 2015, 181.000 nel 2016, 119.000 nel 2017 e meno di 25.000 nel 2018) e del numero di nuove istanze di asilo (130.000 nel 2017, circa 55.000 nel 2018) che il governo identifica come “principal[e] profil[o] di criticità dell’attuale sistema […] l’anomala sproporzione” tra il numero di riconoscimenti dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria (rispettivamente 7% e 15%) e il numero dei riconoscimenti della cosiddetta protezione umanitaria (25%), individuandone la causa nell’eccessiva discrezionalità che la norma che la prevede lascerebbe agli organi amministrativi e giudiziari. La soluzione offerta dalla legge è l’abrogazione della protezione umanitaria come istituto di carattere generale e la sua frammentazione in specifiche ipotesi di tutela complementare: permesso di soggiorno per protezione sociale, per violenza domestica, per calamità, per particolare sfruttamento lavorativo, per atti di particolare valore civile, per protezione speciale, per cure mediche.
È senz’altro vero che la norma abrogata (art. 5, sesto comma, del testo unico sull’immigrazione, che impone il rilascio di un permesso di soggiorno per “seri motivi […] di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali”) ha natura di norma aperta ad ambito di applicazione non predeterminabile. Ma è proprio questo il suo pregio: la genericità, che fa di essa “la salvaguardia dell’intero complessivo sistema giuridico sulla condizione della persona straniera”. Ed è pur vero che ha una funzione residuale rispetto alle forme principali di protezione internazionale. Tuttavia la sua applicazione non è mai stata residuale. Al contrario: dal 2004, all’entrata in vigore del decreto legge, il riconoscimento di questa forma di protezione si è mediamente attestata oltre il 27%, superando sempre (con la sola eccezione di due annate in cui è superata dalla protezione sussidiaria) le altre due forme di protezione. È stato perfino lo stesso ministero dell’Interno, nel 2012, all’indomani delle “primavere arabe”, a raccomandarne l’applicazione per tutti i richiedenti asilo provenienti dalla Libia.
In ogni caso, la sua abrogazione e la sua sostituzione con specifiche ipotesi tipizzate sollevano importanti problemi di legittimità. Intanto, la tipizzazione prevede una contrazione della validità di alcuni permessi di soggiorno (a sei mesi o a un anno, a fronte dei due anni della protezione umanitaria), che comporta l’automatica esclusione dei titolari dall’iscrizione al servizio sanitario nazionale e dall’accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica. Inoltre – diversamente dal permesso derivante dal riconoscimento della protezione umanitaria – alcune ipotesi tipizzate precludono la possibilità di convertire il titolo di soggiorno (per protezione speciale, per calamità e, probabilmente, per cure mediche) in permesso per motivi di lavoro. Infine, fatto più problematico ancora, la tipizzazione introdotta è insufficiente perché gli istituti sostitutivi non offrono complessivamente la medesima tutela garantita dalla forma di protezione abrogata: in particolare, non vi rientrano i casi di estradizione verso un Paese in cui sia prevista la pena di morte, o in cui si corra il rischio di trattamenti inumani e degradanti, o di mancato rispetto della vita privata e familiare, di estradizione per reati politici, di garanzia di un livello di vita dignitoso.
In generale, la logica più o meno dichiarata del provvedimento sembra essere quella di sospingere verso un impossibile riaccentramento del potere attraverso lo svilimento dell’attività degli organi amministrativi (le commissioni territoriali) e giurisdizionali (i tribunali di primo grado e la Corte di Cassazione) (come già sottolineato da Enrica Rigo lo scorso 19 settembre), motivata dal sospetto non solo nei confronti dei richiedenti asilo, ma anche nei confronti di chi è preposto ad accertare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della loro protezione.
La legge, tuttavia, produrrà presumibilmente l’effetto opposto: l’aumento del contenzioso giudiziario per l’applicazione diretta dell’art. 10, terzo comma (asilo costituzionale), risultando esso non più pienamente attuato per effetto dell’abrogazione della protezione umanitaria; e, in ultima istanza, l’intervento della Corte costituzionale, imparziale presidio dei diritti di tutti, che le forze politiche al governo ben difficilmente potranno rappresentare come l’ennesima espressione di fantomatici poteri forti garanti di privilegi di pochi.
Necessario e urgente sarebbe stato intervenire per dare finalmente piena attuazione al diritto di asilo; non era certamente né necessario né tantomeno urgente concepire un decreto legge finalizzato piuttosto al suo svuotamento, a integrazione di un progetto di blocco dei flussi migratori sotto più profili manifestamente illegittimo. È una legge che – rendendo ancor più difficoltoso non solo ottenere protezione internazionale, ma anche chiederla e goderne una volta ottenuta – tradisce i sentimenti di umanità e di solidarietà che sono alla base di qualsiasi democrazia orientata alla libertà e all’eguaglianza di tutti in nome della dignità di ciascuno.
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