«L'alba ci colse come un tradimento; come se il nuovo sole si associasse agli uomini nella deliberazione di distruggerci. I diversi sentimenti che si agitavano in noi, di consapevole accettazione, di ribellione senza sbocchi, di religioso abbandono, di paura, di disperazione, confluivano ormai, dopo la notte insonne, in una collettiva incontrollata follia. Il tempo di meditare, il tempo di stabilire erano conchiusi, e ogni moto di ragione si sciolse nel tumulto senza vincoli, su cui, dolorosi come colpi di spada, emergevano in un lampo, così vicini ancora nel tempo e nello spazio, i ricordi buoni delle nostre case».
Così Primo Levi ricorda l'alba invernale sul campo di Fossoli, l'alba della formazione del convoglio, della partenza, delle prime violenze alla stazione di Carpi. Pochi giorni fa nella provincia di Modena non è stata l'alba a tradire, ma una mattina calda e luminosa. E non sono stati gli uomini, ma la terra: alle 9 e tre minuti ha tremato ancora e intensamente. Con le scosse più forti sono implosi capannoni, travolgendo chi era al lavoro, sono crollate torri, chiese, case. Il lavoro, la storia locale, la voglia di rimettersi in moto, sono stati traditi e travolti da quella seconda scossa, illuminata dal sole forte di fine maggio, che invitava a ricominciare. Nello sconvolgimento di quella giornata, nel panico delle scosse successive, nell'urgenza di soccorrere, dare ricovero, mettere in sicurezza, quasi nessuno si è accorto che quella mattina aveva tremato anche il campo di Fossoli.Costruito nella pianura modenese, a pochi chilometri da Carpi, immerso in un regolare paesaggio di case coloniche, campi coltivati e rari alberi ad alto fusto, il campo negli ultimi decenni si presentava come un agglomerato di baracche in muratura avvolte dalla vegetazione e piegate dal passare del tempo
Costruito nella pianura modenese, a pochi chilometri da Carpi, immerso in un regolare paesaggio di case coloniche, campi coltivati e rari alberi ad alto fusto, il campo negli ultimi decenni si presentava come un agglomerato di baracche in muratura avvolte dalla vegetazione e piegate dal passare del tempo. Un campo tra i campi. La sua storia era iniziata proprio nel maggio di settant’anni fa, quando nell'area individuata dall'Ufficio del genio del VI Corpo d'armata di Bologna venne istituito un campo per prigionieri di guerra, prevalentemente inglesi. Dopo l'8 settembre 1943, con la gestione della Repubblica sociale, diventò un campo di concentramento per ebrei e politici; all'inizio del 1944 un settore cominciò a essere diretto dal comando nazista di Verona: questa parte viene ribattezzata Durchgangslager, campo di transito per deportati destinati a Auschwitz, Ravensbrück, Bergen-Belsen, Mauthausen.
Non è facile calcolare quante persone siano passate da Fossoli: gli storici indicano circa 5.000 prigionieri di guerra nella prima fase, poi 2.500-3.000 politici, che furono inviati soprattutto a Mauthausen e ai suoi sottocampi (come Gusen), mentre tra il febbraio e l'agosto 1944 circa un terzo degli 8.000 ebrei deportati dall'Italia venne convogliato su questo luogo, considerato strategico perché posto sulla linea ferroviaria del Brennero: un funzionale punto di raccolta per i «trasporti» verso nord e verso est.
Un punto di attesa, ci dice Levi, dove l'«insufficiente conoscenza del futuro», lasciava spazio alla speranza che questo non potesse essere poi così terribile. Quella che probabilmente fu la «sua» baracca – sua e di quanti altri? – sembra essere rimasta in piedi, ora. Mentre altre con la scossa del 29 maggio si sono aperte sulla vegetazione o hanno perso i mattoni più alti, quelli dei timpani.
Le condizioni del campo non erano buone: ma c'erano le tracce da seguire, che permettevano di raccontarne la storia. Una storia che non si fermò con la sua dismissione nell'agosto 1944, quando l'avanzata alleata costrinse i tedeschi a spostarsi a nord e a creare un nuovo campo a Bolzano Gries. La storia di Fossoli era andata avanti, aveva visto albe molto diverse: prima l'arrivo dei cosiddetti «indesiderabili», stranieri che alla fine del conflitto si trovavano nel territorio italiano (da ex-combattenti in disaccordo con i regimi sorti nelle loro patrie a donne e orfani, dagli sbandati agli ebrei che volevano salpare per la Palestina). Poi, nel 1947 è il sole dell'utopia a sorgere sul campo, trasformato in Nomadelfia, comunità voluta da Don Zeno Saltini per occuparsi di ragazzi orfani di guerra, fondata sui precetti evangelici e il lavoro della terra. Ma anche questa esperienza nel 1952 si interrompe e lascia il passo a una nuova destinazione: il campo diventa il Villaggio San Marco, le baracche si trasformano in case per i profughi istriano-dalmati. È solo negli anni Settanta che il campo viene chiuso e abbandonato. Il tempo, il vento, la pioggia consumano allora le coperture, i sistemi di assi di sostegno ai tetti, e poi le pareti, che gli istriani avevano curato coprendole con intonaci ocra e indaco. Intanto la natura, attorno, cresce rigogliosa e le siepi piantate dai profughi diventano cespugli sempre più esuberanti.Solo negli anni Settanta che il campo viene chiuso e abbandonato. Il tempo, il vento, la pioggia consumano allora le coperture, i sistemi di assi di sostegno ai tetti, e poi le pareti, che gli istriani avevano curato coprendole con intonaci ocra e indaco. Intanto la natura, attorno, cresce rigogliosa e le siepi piantate dai profughi diventano cespugli sempre più esuberanti
Dalla fine degli anni Novanta tutte queste tracce si rivelano preziose per le guide e gli studiosi della Fondazione Fossoli, la punteggiatura fondamentale per il racconto delle storie – plurali, diverse, sovrapposte – del campo. Per non perderle, per consolidare le strutture e pensare al futuro del luogo, proprio il 29 maggio scorso la Fondazione Fossoli aveva l'importante appuntamento della firma di una convenzione con quattro facoltà di architettura – Bologna, Venezia, Milano e Genova.
Ora il compito è più difficile. Ma bisogna continuare a poter leggere quelle tracce, a poter percorrere il campo, vederlo e sentirlo. Perché l'esperienza del luogo, a volte così vicino, per nulla – apparentemente – «eccezionale», è sempre più forte e coinvolgente dello studio di un libro. Anche se le parole lette possono risuonare alla mente a ogni passo, sono la luce, la terra, l'aria, la cappa di caldo della bassa d'estate o la nebbiolina dei mesi freddi che ci possono far sentire molto più radicalmente presente quell'attesa di Levi. Che cosa ci sarebbe potuto essere di così terribile oltre la recinzione di Fossoli?
Le priorità ora sono altre: le case, il lavoro, il trauma di averli persi. E l'emersione istantanea, tagliente e dolorosa, dei «ricordi buoni delle nostre case», scriveva Levi, quelle case dove molti non possono rientrare, e tanti di più non riescono a farlo per la paura di nuove scosse. Ma quando verrà la ricostruzione, insieme alle torri, alle chiese, ai municipi, alle scuole, a tutti quei simboli dei paesi della Bassa padana dove i campanili e le torri sono il fulcro della vita sociale, insieme a questi segni dovremo ricordarci anche di un luogo la cui importanza va ben oltre l'Emilia. Se molti hanno scoperto tardivamente e solo col terremoto la bellezza di queste cittadine di pianura, forse si può cogliere l'occasione per far sapere a tutti dov'è Fossoli, campo di transito nazista e fascista, e poi casa degli italiani d'Istria e Dalmazia. È qui, nel cuore dell'Italia, «così vicino ancora nel tempo e nello spazio», direbbe Levi.
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