Il fenomeno va avanti da qualche anno, lo racconta il "New York Times" in un pezzo uscito a febbraio, poi ripreso da France culture: cittadini e cittadine francesi di religione musulmana lasciano il Paese dove sono nati, ma che non sentono (più) come casa loro, per cercare opportunità altrove. Un lavoro, ma anche un posto dove sentirsi più sicuri, più liberi di vivere la loro pratica. Il giornale americano parte con un’intervista allo scrittore Sabri Louatah, francese di Saint Etienne, di origine algerina, emigrato a Philadelphia: «Sono stati gli attacchi (terroristici) del 2015 che mi hanno fatto partire: ho capito che non saremmo stati perdonati. [...] In una grande grande città sulla costa orientale sei più tranquillo che a Parigi, dove sei nell’occhio del ciclone».
«Mi sento francese solo all’estero», racconta invece Amar Mekrous. L’uomo, cresciuto nella regione di Parigi da genitori immigrati in Francia, oggi vive in Gran Bretagna: «Sono francese, sono sposato a una francese, parlo francese e vivo in francese. Mi piacciono il cibo e la cultura francese. Ma nel mio Paese non sono francese».
«Si tratta di persone che vanno a partecipare all'economia di Paesi come il Canada e la Gran Bretagna», spiega Olivier Esteves, ricercatore al Centre d'Études et de Recherches Administratives, Politiques et Sociales dell'Università di Lille. La sua università ha partecipato a uno studio condotto su 900 musulmani francesi emigrati. Tre università europee – Liegi, KU Leuven e Amsterdam – stanno lavorando a uno studio comparato che racconta proprio l’emigrazione musulmana. Jeremy Mandin, che ha contribuito allo studio, racconta che una caratteristica che ritorna in maniera ricorrente nelle interviste è la constatazione di «aver giocato secondo le regole, di aver fatto quello che veniva loro chiesto e alla fine di non aver raggiunto il livello di vita che pensavano avrebbero dovuto ottenere».
Cittadini e cittadine francesi di religione musulmana lasciano il Paese dove sono nati, ma che non sentono (più) come casa loro, per cercare opportunità altrove. Un lavoro, ma anche un posto dove sentirsi più liberi di vivere la loro pratica
Elyes Saafi, 37 anni, è un altro emigrato citato dal "New York Times". Ha scelto Londra, dove vive con la moglie. Saafi è un cittadino francese di origini tunisina (i genitori sono immigrati in Francia negli anni Settanta): «Una cosa che mi ha colpito qui è stato il fatto che abbiamo pasti e cene aziendali, dove c'è un buffet vegetariano, un buffet halal ecc., ma tutti si mescolano». «Nel Regno Unito non ti preoccupi se tuo marito è arabo», aggiunge la moglie di Saafi.
La questione è più attuale che mai, ma non è nuova. L’islam e l’immigrazione sono stati un tema centrale della campagna elettorale per le presidenziali francesi, il cui primo turno si terrà domenica 10 aprile: questo soprattutto per la destra e per l’estrema destra, e almeno fino all’invasione russa dell’Ucraina. La situazione internazionale ora prende quasi tutto lo spazio nei dibattiti e pare vada a favore dell’attuale presidente.
Éric Zemmour gioca senza complessi con i grandi temi della tradizione dell’estrema destra francese – è lui che ha proposto di vietare l’uso di nomi non francesi ai neonati o, in ultimo, la creazione di ministero della «Remigration», che si incarichi, come direbbe Salvini, «di rimandarli a casa loro» – ma i concetti di «Grand Remplacement», «usi e costumi francesi», «cristianità della Francia» sono citati regolarmente nei dibattiti pubblici anche dalle altre due candidate di destra, Le Pen e Pécresse.
Se Macron nei sondaggi oscilla intorno al 30% (lo si collochi politicamente dove si preferisce), i tre candidati di destra insieme arrivano quasi allo stesso risultato. L’altro grande favorito è l’astensionismo, che si stima sarà intorno al 30%.
Nella patria della laicità è paradossalmente proprio quest’ultima, in un'interpretazione distorta dello spirito della legge, che ha fornito uno strumento ideologico a un dibattito sterile, pericoloso e doloroso. La legge del 1905, che sancisce la separazione totale fra Chiesa e Stato, rimpiazza il Concordato con il Vaticano del 1801 (oggi ancora in vigore solo in Alsazia-Mosella) e stabilisce la libertà di coscienza e il libero esercizio dei culti; contemporaneamente, vengono abolite tutte le sovvenzioni pubbliche alle religioni.
Nel 2004 un'ulteriore legge vieta l'uso di simboli religiosi a scuola (croci, kippah, velo…) per garantire lo spirito laico dell'istituzione pubblica. Nell'ottobre 2010 la Francia è stato il primo Paese europeo a vietare l'uso del burqa negli spazi pubblici.
Negli ultimi anni si è però aperta la stagione delle polemiche a sfondo religioso: dai menu halal nelle mense scolastiche al divieto di burkini sulle spiagge francesi
Negli ultimi anni si è però aperta la stagione delle polemiche – e la lista non è esaustiva – a sfondo religioso: nel 2012 (nonostante l'esiguità dei casi effettivi) è stata la volta del menù halal nelle mense scolastiche, visto come un’imposizione culturale, e della macellazione rituale (in nome dei diritti animali), che però, guarda caso, non nominava quella ebraica; nell’estate del 2016 del divieto in alcune spiagge del burkini; nel 2019 è stato il turno delle madri con il velo che accompagnavano le classi in gita scolastica. All’epoca il ministro dell’Istruzione, Jean-Michel Blanquer, ha correttamente ricordato che «la legge non vieta alle donne con il velo di accompagnare i bambini», ma ha ritenuto necessario aggiungere che il velo «non è desiderabile nelle nostra società». Sono seguite poi la polemica sull’uso dell’hijab per le giocatrici di calcio e quella sull’islamo-gauchisme nelle università .
Tutte queste polemiche, a cui si aggiunge però un apparato legislativo che, volendo colpire l’islam radicale, di fatto va a colpire settori della società che radicali non sono – parlo della «loi confortant le respect des principes de la République», o legge sul separatismo, che preoccupa diversi attori della società civile –, creano un clima politico pesante.
Ricordo che tutti i responsabili di una moschea in Francia per poter esercitare devono firmare la Carta per i principi dell’islam di Francia, il cui articolo 9 recita:
«I musulmani in Francia e i simboli della loro fede sono troppo spesso il bersaglio di atti ostili. Questi atti sono opera di una minoranza estremista che non può essere confusa né con lo Stato né con il popolo francese. Pertanto, le denunce di un presunto razzismo di Stato, come tutte le posture vittimistiche, sono diffamatorie. Alimentano ed esacerbano sia l'odio anti-musulmano sia l'odio verso la Francia».
In questo clima, la candidata de Les Républicains, Pécresse, ha sentito il bisogno di sottolineare, al suo ultimo incontro elettorale, che «Marianne non è una donna velata» e ha promesso che, se eletta, vieterà tanto il burkini quanto il velo per le madri che accompagnano le classi in gita; Le Pen arriva a dire, invece, che vieterà l’uso del velo in strada (ha già depositato una legge contro i simboli ostentatori, naturalmente solo musulmani).
Di fatto l'unico partito che ammette l'esistenza di un problema è la France Insoumise di Jean-Luc Melenchon, che nel suo programma parla chiaramente di discriminazione verso i cittadini francesi di religione musulmana: la laicità «non deve servire a stigmatizzare i seguaci di una religione, come in questo periodo è stato fatto contro i musulmani».
Nel 2016 un sondaggio raccontava che i francesi stimano che i musulmani rappresentino il 31% della popolazione. Un dato che è tra le tre e le cinque volte superiore alla cifra reale. La Francia ha un’importante popolazione di origine o cultura musulmana, è vero, ma le stime oscillano tra il 6 e il 10,5% della popolazione totale. Questi dati sono ricavati da diversi studi comparati: non è possibile fare un censimento perché in Francia, secondo la legge sulla laicità, le statistiche etniche sono vietate. Si tratta comunque di dati Insee (l’Ipos francese) del Pew Research Center e di studi demografici diversi. Secondo le stime, convergenti, della Grande Moschea di Parigi e dell’Ufficio dei Culti del ministero dell’Interno (Bureau des Cultes) nel Paese ci sono circa 2.500 moschee e luoghi di culto musulmani (erano meno di un centinaio nel 1970). (Qui un rapporto del Senato che mette insieme i diversi studi.)
L'atmosfera è cupa per i musulmani in Francia, dice Nadia, intervistata da France Culture. Racconta di non aver potuto sostenere colloqui lavorativi perché il regolamento interno di molte aziende vieta l’uso del velo: originaria della banlieu parigina, si è trasferita in Gran Bretagna. «Mi piace la mentalità anglosassone dell'accettazione. Non sento più quell'atmosfera cupa. Non vengo attaccata quando esco, la gente è estremamente gentile con me. Forse le persone hanno opinioni diverse, ma almeno hanno rispetto». Eppure Nadia spera di poter tornare in Francia tra qualche anno, se l'atmosfera migliorerà: «Oso sperare che, in futuro, le questioni dell'islam e del velo non faranno più parte del dibattito pubblico».
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