Negli ultimi giorni si è molto discusso di questioni giuridiche e ambientali in relazione alla crisi dell’ex Ilva. Ma converrebbe ricordare sempre che le vicende che abbiamo sotto gli occhi sono il prodotto di due elementi in particolare, che sono alla base del dramma che si sta consumando intorno a una delle principali aziende italiane: la crisi del mercato siderurgico e il modo in cui gli operatori la stanno affrontando.
L’acciaio alle strette. Stando alle stime di Eurofer, nel primo trimestre 2019 la domanda di beni siderurgici nell’area Ue si è contratta del 1,6% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente; nel trimestre successivo la flessione è stata più pronunciata (-7,7%). Sono state così bruciate le previsioni formulate alla fine del 2018, che prospettavano per l’anno in corso un calo complessivo dello 0,4%. A fine 2019, secondo l’associazione dei siderurgici europei, la riduzione del fabbisogno dovrebbe attestarsi intorno al 3,1%.
Sull’andamento della domanda di acciaio incide in maniera decisiva la crisi della manifattura tedesca – in particolare del settore dell’automotive, colpito dallo scandalo “dieselgate” e dai dazi americani. La contrazione del mercato comunitario ha accentuato una tendenza alla riduzione dei prezzi che va avanti dai primi mesi del 2018, sospinta dal boom delle importazioni extra-comunitarie verificatosi a seguito delle alte tariffe (25%) imposte da Trump sui beni siderurgici. Di fronte a queste misure i produttori dei Paesi emergenti hanno dirottato le loro esportazioni verso l’Europa. Lo scorso anno l’import ha coperto circa un quarto del fabbisogno di acciaio nella Ue (due punti in più rispetto al 2017), facendo registrare un incremento del 12,7%. Il crollo della domanda ha trascinato a sua volta le importazioni, così come un’eventuale ripresa tornerebbe a sollecitarle.
La pressione dei produttori dei Paesi emergenti sui mercati occidentali non è un fenomeno congiunturale: risponde a trasformazioni strutturali che verosimilmente avranno un impatto sul settore siderurgico (e non solo) per un tempo non breve. Gli impetuosi processi di sviluppo verificatisi in quei sistemi economici (Cina in testa) negli ultimi decenni, con la netta prevalenza degli investimenti sui consumi, hanno sollecitato la formazione di un’ampia industria di base. Fino a qualche anno fa la produzione di acciaio in Paesi come la Cina era rivolta quasi interamente al mercato interno. La maturazione cui quelle economie stanno andando incontro, con la graduale espansione della quota di reddito destinata ai consumi, ha rallentato sensibilmente il ritmo di crescita della domanda di beni siderurgici. Si è venuta così a palesare una sproporzione fra la capacità produttiva installata negli ultimi decenni e l’attuale capacità di assorbimento del mercato, la cui conseguenza diretta è stato l’incremento delle esportazioni. Questa “sovracapacità” ammonta a diverse centinaia di milioni di tonnellate/anno di acciaio, rappresentando dunque un grave problema per gli equilibri del mercato mondiale. La questione è tanto delicata da aver spinto l’Ocse a promuovere un comitato “sull’eccesso di capacità produttiva nel settore siderurgico”, a cui però il principale produttore mondiale – la Cina – non partecipa. Da parte sua Pechino ha avviato imponenti piani di chiusure e ristrutturazioni, che procedono però fra non poche contraddizioni. D’altra parte, la sfida che la Repubblica popolare e gli altri “emergenti” si trovano ad affrontare è epocale e di enormi proporzioni: sono in gioco milioni di posti di lavoro e il destino di intere aree. L’Europa e gli Stati Uniti ci hanno messo circa un ventennio per uscire da una situazione analoga: è verosimile che anche per la Cina e gli altri i tempi non saranno brevi.
La soluzione del problema tuttavia è complicata dalle tensioni che attraversano il globo. Il commercio internazionale è oggi un terreno di scontro politico: il protezionismo di Trump e il liberoscambismo di Xi sono gli strumenti attraverso cui le due principali potenze si affrontano. In questo quadro è molto difficile immaginare una gestione multilaterale e coordinata di qualsiasi crisi. In tutto questo la posizione dell’Europa è quanto mai delicata, data la sua collocazione intermedia: ufficialmente alleata degli Stati Uniti, ma in buoni rapporti con Pechino. C’è dunque da aspettarsi che le tensioni manifestatesi negli ultimi anni nel mercato siderurgico persisteranno.
Le capriole di Mittal. È questo lo scenario che hanno davanti gli operatori del settore. Il modo in cui stanno provando a fronteggiarlo passa principalmente attraverso una sempre più intensa centralizzazione dei capitali, perseguita con fusioni e acquisizioni. Operazioni che consentono alle imprese non solo di ampliare le rispettive quote di mercato, ma altresì di estendere il controllo sulla capacità produttiva – condizione che permette loro di realizzare economie di scala e di effettuare una selezione degli impianti su una base più ampia. Potendo contare su un numero maggiore di unità, operanti in diversi contesti o su diversi segmenti di mercato, un’impresa ha più margini anche per affrontare le crisi. Può scegliere di valorizzare le attività più remunerative e fermare – a tempo determinato o definitivamente – quelle in perdita. È sulla base di questa premessa che va letta la vicenda Ilva.
Con l’aggiudicazione ad Arcelor Mittal, le strutture di questa impresa sono entrate a far parte di un’articolazione produttiva più vasta. Taranto, in particolare, ha perduto la centralità di cui aveva goduto sia con le partecipazioni statali che con i Riva: nel solo ramo europeo, Arcelor Mittal conta su diversi altri stabilimenti a ciclo integrale che operano nel comparto dei laminati piani. Certo, nessuno ha le potenzialità del centro pugliese, ma è anche vero che queste sono in gran parte inapplicabili finché non sarà completato il risanamento degli impianti.
Arcelor Mittal ha provato a preservare la propria presenza sul mercato, esponendosi però agli effetti del crollo dei listini
Veniamo così a un primo nodo. Per gli oneri che gravano sul siderurgico ionico, l’ex Ilva si presenta – almeno nel breve periodo – come un’area di perdita. Questo i nuovi dirigenti non potevano non saperlo al momento dell’acquisizione. Al contempo è altresì plausibile che non si aspettassero le perdite che si sono registrate nei mesi successivi sia nel ramo italiano che nel resto del gruppo. La recente relazione sull’andamento del terzo trimestre evidenzia un risultato negativo per più di 500 milioni di dollari. Per quanto riguarda l’Europa, al netto di Arcelor Mittal Italia, il peggioramento delle performance è dovuto essenzialmente alla dinamica dei prezzi: la multinazionale ha infatti mantenuto lo stesso livello di spedizioni dell’anno precedente, ma i ricavi sono scesi di circa 800 milioni di dollari. In sostanza, Arcelor Mittal ha provato a preservare la propria presenza sul mercato, esponendosi però agli effetti del crollo dei listini. Rispetto ai risultati dell’ex Ilva non abbiamo comunicazioni ufficiali da parte dell’azienda, ma le indiscrezioni prospettano perdite superiori a quelle (già ingenti) della gestione commissariale.
Di fronte a queste circostanze, che hanno pesato sull’andamento del titolo, i dirigenti della multinazionale potrebbero aver deciso (il condizionale è d’obbligo perché siamo a conoscenza solo di quello che trapela nel dibattito pubblico) di limitare i flussi di cassa negativi liberandosi dell’ex Ilva. Una scelta comprensibile sul piano finanziario, e nell’ottica di breve periodo che orienta un’impresa quotata, che oltretutto mette a rischio la sopravvivenza di quel ramo d’azienda, prospettando la dismissione di una quota di produzione di un certo peso, con possibili effetti benefici sugli equilibri fra domanda e offerta.
Tuttavia questa opzione non è esente da rischi. Se dopo il recesso di Arcelor Mittal un altro soggetto acquisisse le attività italiane, e la risanasse rimettendole sul mercato, la multinazionale avrebbe fatto rinascere un concorrente. Mittal scommette sull’irrealizzabilità di questa ipotesi, e ha dalla sua diversi elementi: su tutti, le difficoltà finanziarie che attanagliano gli operatori e le ristrettezze del mercato. Queste, combinate allo sforzo necessario per rimettere in campo Ilva, restringono le probabilità che quell’operazione possa verificarsi. Ma non le annullano del tutto.
La condizione che AM ha posto per restare è una radicale revisione del piano industriale con cui si è aggiudicata Ilva. Taranto diventerebbe uno stabilimento di media stazza (con esuberi stimati intorno ai 4.000/5.000 dipendenti), perdendo un vantaggio competitivo rispetto alle altre unità del gruppo, e divenendo così più vulnerabile agli andamenti del mercato. Con questa operazione la multinazionale limiterebbe le perdite nell’immediato, vedrebbe contrarsi gli oneri del risanamento e potrebbe giovarsi in prospettiva di flussi di cassa positivi. C’è chi dice che questo sia da mesi il “piano A” dell’attuale proprietà, e che la decisione di recedere dal contratto sia maturata di fronte all’indisponibilità del governo a discutere di esuberi di quella portata. Se ciò fosse vero, la drammatizzazione degli ultimi giorni potrebbe essere una tattica finalizzata a piegare le resistenze dell’esecutivo.
Sia come sia, questa ipotesi prospetta un’inversione a U dell’impostazione industriale. Se dobbiamo credere al piano con cui si è presentata alla gara, Arcelor Mittal puntava a fare di Taranto entro il 2023 il suo principale stabilimento europeo, con una capacità produttiva di acciaio grezzo di 8 milioni di tonnellate l’anno, da integrare con semilavorati provenienti dalle altre unità del gruppo per saturarne l’intera capacità di laminazione (10 mln t/anno). Date queste condizioni, in una situazione di crisi l’azienda avrebbe potuto concentrare presso il siderurgico ionico anche le quote di produzione dei suoi centri più piccoli allo scopo di realizzare economie di scala. In particolare, questo sarebbe potuto accadere a danno dello stabilimento di Fos sur Mer (Marsiglia), storico concorrente diretto di Taranto. Una prospettiva che i sindacati francesi avevano evocato con preoccupazione al momento dell’acquisizione di Ilva. Ora, con una capacità produttiva ridotta a 4 milioni di tonnellate, Taranto diventerebbe di fatto un “doppione” di Fos e dovrebbe reggerne la concorrenza. La stessa Arcelor Mittal perderebbe l’opportunità di razionalizzare la sua articolazione produttiva, ma evidentemente per i dirigenti della multinazionale la remunerazione del capitale nel breve termine (e forse anche gli equilibri politici) prevale su considerazioni di più ampio respiro industriale.
Allo stato attuale l’azienda ha in mano almeno due carte, e questo le consente di fare il gioco, mentre la sua controparte politica appare disorientata e incerta
Che fare? Allo stato attuale l’azienda ha in mano almeno due carte, e questo le consente di fare il gioco, mentre la sua controparte politica appare disorientata e incerta. Nel frattempo la fabbrica va spegnendosi, come denunciano i sindacati. Nella trattativa in atto Arcelor Mittal ha una posizione di forza evidente, e la usa fino in fondo. Alla fine, pur di salvare il salvabile, il governo potrebbe cedere. La sola condizione che consentirebbe una via d’uscita dall’impasse è la realizzazione dell’ipotesi prospettata sopra: la disponibilità di un nuovo gestore.
Va da sé che questa operazione andrebbe preparata in maniera oculata. Sarebbe necessaria una compagine aziendale in grado di reggere il peso di anni di “vacche magre” e, al contempo, di elevare il profilo tecnico-produttivo degli impianti. In altri termini, diventerebbe imprescindibile una presenza dello Stato come “investitore paziente”, insieme a uno o più operatori industriali interessati a valorizzare le strutture produttive di Ilva. Fra questi potrebbe esserci un outsider del mercato europeo, se non proprio un soggetto interessato a entrarvi in maniera strutturata, insieme a un portatore di tecnologia e know how di alto livello. Insomma, si dovrebbe far rivivere lo schema di AcciaItalia (la cordata sconfitta da Mittal), con basi più solide sul piano finanziario. Un’operazione che richiederebbe una direzione politica chiara e determinata.
Tuttavia la definizione di questa prospettiva porterebbe via tempo, e dunque denaro per fronteggiare le urgenze: risorse che dovrebbero essere fornite in ultima istanza dal governo (con misure tipo “prestito-ponte”), le quali senz’altro attirerebbero l’attenzione della Commissione europea in tema di “aiuti di Stato”.
In definitiva, un eventuale “piano B” presenta diverse incognite. D’altra parte, sarebbe opportuno chiedersi se sia ancora possibile fidarsi di Mittal, e se quest’ultimo sia ancora credibile dopo la tempesta che ha scatenato. Un altro elemento non andrebbe sottovalutato: a patto di portare a termine il risanamento ambientale, lo stabilimento di Taranto offre a chi le voglia sfruttare per intero potenzialità tecniche che solo pochi altri siti europei hanno. A questo proposito vale la pena richiamare le parole di un vecchio manager dell’Ilva pubblica, Hayaho Nakamura, che al momento della privatizzazione scriveva: «l’Ilva è stata considerata alla stregua di un combinat di un Paese ex comunista, come se si trattasse di vendere l’Ekosthal e non la terza industria del Paese». In un momento così delicato andrebbe fatto tesoro degli errori del passato.
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