Nei giorni in cui la pandemia esplodeva in Lombardia, scegliendola come proprio epicentro europeo, vari enti e istituzioni locali reagirono alla minaccia brandendo slogan produttivistici, come «Milano non si ferma» o «Bergamo non si ferma».

Secondo molti osservatori, quelle reazioni andavano ricondotte al particolare ruolo che il lavoro rivestirebbe nella regione. Del resto, le province lombarde – Bergamo più di tutte – vengono costantemente associate alla presunta potente «etica del lavoro» che vi sarebbe diffusa; ovvero, alla tendenza dei loro abitanti a considerare il lavoro un valore di per sé, al di là del reddito e delle condizioni di impiego.

In questa visione, c’è un intreccio di stereotipi, di rappresentazioni, di autorappresentazioni e, infine, qualche elemento di verità. I bergamaschi e i bresciani, infatti, non sono certo gli unici a lavorare, o a dare molta importanza al lavoro, in Italia o nel mondo: e non solo, come alcuni pensano, nel solo mondo «settentrionale» euroamericano. Anzi, per molti aspetti, è il contrario: i Paesi con le settimane lavorative standard più estese e più pesanti si trovano tra quelli in via di sviluppo – in America Latina o nel Sud Est asiatico –, dove si lavora in media più di 48 ore settimanali, con pochissime tutele e per salari da fame. Tuttavia, gli abitanti delle province lombarde vengono raccontati – e amano raccontarsi con orgoglio – come i «campioni del lavoro», riconducendo tale caratteristica a consolidati fattori di ordine culturale e a una sorta di predisposizione antropologica. Ma così non è e, per cogliere gli elementi di verità comunque presenti nel discorso, occorrerebbe ripercorrere le storie specifiche di quei luoghi e delle loro configurazioni sociali. Se guardiamo alla Bergamasca, per esempio, troviamo un territorio che, fino al secondo dopoguerra, era caratterizzato da una grande povertà e da una forte tendenza alla migrazione e alla periodica mobilità da lavoro in settori a qualificazione medio bassa, dove una resa economica importante era garantita solo dall’estrema intensificazione del lavoro. Talvolta, i migranti stagionali erano impiegati in mansioni che riconoscevano un reddito prestabilito e, secondo la logica del cottimo, più rapidamente si concludeva il lavoro, massima era la resa e prima si poteva rientrare a casa. Per esempio, i tagliatori di fieno della Val Cavallina divennero proverbiali nel Canton Ticino per la loro velocità d’esecuzione, tanto che in alcune vallate ticinesi si diffuse il detto «lavorare come un bergamasco». Ma la loro velocità non era declinazione di alcuna moralità professionale: semplicemente, più rapido era il taglio, prima potevano tornare in Bergamasca, portando il ricavato alla loro famiglia. Situazioni per certi versi analoghe si riscontrano in altre aree della regione – basti pensare a modi e forme del lavoro transfrontaliero primonovecentesco tra Como, Sondrio e Varese – dove povertà e alti tassi di disoccupazione affiancavano un basso tasso di sindacalizzazione e di politicizzazione in senso socialista, da ricondurre, in parte al clericalismo locale, in parte a fattori di mentalità, come un certo fatalismo.

Quando, dopo la metà degli anni Cinquanta, il boom economico cambiò volto al Paese, anche le aree rurali lombarde vennero coinvolte, conoscendo una potente industrializzazione ed espansione economica: per la prima volta, soprattutto grazie alle conquiste salariali generalizzate dalle lotte operaie degli anni Sessanta, si lavorava tanto non solo per sopravvivere. Era possibile comprare una casa, accumulare risparmio e ricchezza. Il movimento operaio crebbe anche nelle grandi fabbriche di quelle province e riuscì persino a portare avanti lotte per le condizioni di salute in fabbrica, come accadde, per esempio, presso la «Dalmine». E fu soprattutto nella Bergamasca che, per le ragioni appena descritte, l’intreccio tra caratteri storici, nuovi processi e nuove opportunità accentuò comportamenti alla base delle rappresentazioni relative alla locale «etica del lavoro»: infatti, negli anni Cinquanta e Sessanta la popolazione locale – in fuga dalle campagne, mediamente poco scolarizzata e con trascorsi di povertà generalizzati – scoprì che, lavorando tanto nell’industria, nell’artigianato e nell’edilizia, poteva arricchirsi. Avviare un figlio al lavoro come piastrellista, elettricista, idraulico o caldaista conveniva economicamente più che mandarlo a scuola o all’università. Anche per questo la Bergamasca è una provincia dove l’università arrivò tardi, soprattutto nell’ambito delle discipline umanistiche che orientassero all’insegnamento scolastico: Bergamo ha importato una massa di insegnanti dalle altre province italiane, perché pochissimi autoctoni erano disposti a mantenere le figlie e i figli fino alla fine dell’università nella prospettiva di un salario da pubblico impiego come quello dell’insegnante, ridicolo se paragonato alla resa di un mestiere in azienda con possibilità di carriera, o ai ricavi di un imbianchino o di un idraulico, avviati al lavoro dopo la terza media.

Tali processi – anch’essi parzialmente riconoscibili in altre province lombarde – hanno contribuito a consolidare un’«ideologia del lavoro» con una sua vita autonoma, che ha notevoli effetti collaterali rispetto alla ricchezza. Anzitutto questo stato di cose rafforza l’idea che ogni problema debba essere risolto con approccio pragmatico, attraverso il lavoro, sinonimo di «concretezza»: nelle zone di cui stiamo parlando, la riflessione e l’analisi vengono da molti degradate a funzioni del tempo libero, quando non a perdita di tempo. In secondo luogo, anche in ragione delle aspettative e delle pressioni sociali, è diffusa la tendenza a collocare il lavoro al vertice delle gerarchie valoriali personali, fino a quando traumi sanitari, familiari o la morte di un congiunto sopraggiungano. Inoltre, in un simile brodo di coltura viene ipertrofizzato il ruolo della responsabilità individuale nelle cose della vita e si rafforza una visione dell’insuccesso come colpa personale. La catastrofe che si è scatenata a marzo e aprile ha avuto proprio per questo un effetto psicologicamente devastante. Il Covid-19, infatti, non poteva essere affrontato con un mix di lavoro e pragmatismo: di conseguenza l’intera provincia ha sperimentato impotenza e disorientamento. L’ideologia del lavoro ha agito comunque, favorendo la diffusione di slogan come il testosteronico «Mòla mìa», ripreso dai giornali e diventato il titolo di un documentario di Andrea Lucchetta, dedicato da Rai Uno alla Valle Seriana. Sotto lo slogan, però, la gente moriva, stava in casa e c’era molto poco di concreto da fare. Infine, l’approccio ideologico qui diffuso condiziona anche la concezione della sanità, che molti non intendono nella sua dimensione di salute pubblica e collettiva, favorendo la logica del privato anche là dove risulti deleteria, come di fronte al Covid-19.

Un tale tessuto socioeconomico non poteva essere propenso a immaginare la chiusura delle sue attività produttive a scopo precauzionale. Prima ti ammali e poi ti curi, si dice: «Inutile fasciarsi la testa prima del tempo!». Quindi, se gli industriali di Nembro e di Alzano Lombardo non volevano chiudere le loro fabbriche, la stessa cosa può dirsi per la stragrande maggioranza degli autonomi e degli artigiani, in accordo con un certo numero di salariati. L’ideologia del lavoro, insomma, ha impedito ai più di valutare le fasi della pandemia razionalmente e ha contribuito a separare la percezione della strage dalla sua realtà, alimentando le più bizzarre interpretazioni di quanto stava accadendo. Inoltre, molte donne e molti uomini intrisi di quell’ideologia si sono trovati disorientati nell’impotenza provata di fronte al lutto, alla percezione della possibile fine del proprio mondo. Del resto, là dove la parola e la riflessione non vengono privilegiate a vantaggio degli approcci pragmatici, la metabolizzazione del lutto parte con un bel fardello sulle spalle e le scorie mortuarie sono destinate a rimanere in circolo molto a lungo.

In risposta a questi aspetti, dai primi di giugno alcune istituzioni e associazioni presenti nei comuni bergamaschi più colpiti si impegnarono nell’organizzazione di cerimonie e manifestazioni per l’elaborazione collettiva del lutto. Tuttavia, già da metà ottobre, le attività sono state sospese e si è ricaduti nell’incubo. Certo, in Bergamasca la seconda ondata ha avuto caratteristiche diverse dalla prima: la città non appariva sotto assedio come in primavera, non si sentivano continuamente sirene di ambulanza, tuttavia i contagi sono risaliti e le notizie erano gravide di fantasmi di malattia e di morte. Non era evidentemente più il momento buono per pensare ad azioni collettive finalizzate all’elaborazione del lutto. Chi si vorrà impegnare su questo fronte, dovrà farlo quando tutto sarà davvero concluso. Nel frattempo, molte persone non hanno retto, o hanno retto con molta fatica, la situazione, dovendo ricorrere a supporti psicoterapeutici o psichiatrici. Anche questi, però, non sono i benvenuti in ambienti socio-culturalmente connotati nel modo descritto qui sopra. Ricorrere alla psicoterapia o alla psicoanalisi è per molti una vergogna, perché sono radicati stereotipi e concezioni distorte su queste pratiche, è diffusa la visione dell’uomo che basta a sé stesso e che risolve tutto con l’impegno o, magari, con l’autoanalisi. La psichiatria, nella misura in cui scarica la responsabilità del fallimento su disfunzioni organiche e somministra farmaci invece di parole che responsabilizzino rispetto ai propri limiti reali, ha già vita più facile, perché soggettivamente appare più accettabile. La voglia di rimuovere è tanta come, giustamente, quella di ripartire e di avere la propria vita «normale». A forza di rimuovere, c’è chi è approdato anche in queste zone al ridimensionamento, o alla negazione della reale rilevanza del fenomeno Covid-19, sulla base delle più varie riletture e interpretazioni, che in genere volgarizzano punti alti già tragicamente bassi, come le inettitudini dedicate al Covid-19 da Agamben e da Fusaro.

In generale, l’ideologia del lavoro contribuisce a impedire che circoli in queste regioni la sostanza di cui ci sarebbe forse più bisogno, cioè la capacità di interrogarsi sulle responsabilità sistemiche di quanto stiamo vivendo, mettendo in discussione i nostri standard di vita e i nostri modi di produzione, di consumo e di trasporto, fattori strutturali che hanno reso possibile la pandemia da Covid-19. Non dimentichiamolo: questa pandemia non è una crisi estrinseca al nostro sistema, ma una crisi originata da un fattore biologico, un virus, che si è diffuso nel mondo e ha colpito alcune zone con terribile violenza grazie alle reti e alle ali dell’antropocene capitalistico.

 

[Il presente intervento sviluppa una riflessione nata da un'intervista del "Gruppo di ricerca pandemico"]