«L’idea più stravagante che possa nascere dalla mente di un politico è credere che sia sufficiente che un popolo entri in un Paese straniero con una forza armata per fargli adottare le sue leggi e la sua Costituzione. A nessuno piacciono i missionari armati». [Maximilien de Robespierre, 2 gennaio 1792]

«Noi abbiamo il diritto di dire ai popoli: voi non avrete più re». [Georges Danton, 28 settembre 1792]

 

Come suggeriscono le due citazioni, il dibattito sull’«esportazione della democrazia» risale quantomeno alla Rivoluzione francese, all’epoca delle prime dichiarazioni dei diritti dell’uomo (1789 e 1793), ed ebbe già allora conseguenze molto concrete sulla storia d’Europa (e d’Italia). I francesi esportarono la loro rivoluzione con le armi e, nel farlo, non esitarono a saccheggiare i Paesi conquistati, o liberati, e ad abbandonare una parte dei loro ideali: alla fine, l’esportatore par excellence dei valori e delle istituzioni della Rivoluzione, Napoleone Bonaparte, si trasformò egli stesso in un despota e si fece incoronare imperatore. Con la sua caduta si ritornò, almeno temporaneamente, al mondo di prima.

Nella storia occidentale, il caso più importante di esportazione (armata) di quelle che nel frattempo erano diventate le istituzioni liberaldemocratiche è stato, però, un altro. E a differenza di quello dei francesi appare sostanzialmente riuscito, nel lungo periodo; può essere anzi considerato un notevole successo e ne beneficiamo tuttora. Fu quello attuato dagli Alleati, e soprattutto dagli Stati Uniti, con la Seconda guerra mondiale: in Germania e in Italia (benché da noi in misura minore grazie alla forza dei partiti antifascisti e del movimento partigiano), Paesi che già avevano conosciuto la democrazia liberale in passato; e perfino in Giappone, una grande civiltà lontanissima dalla cultura occidentale, che non aveva mai conosciuto l’Illuminismo e aveva sperimentato solo in una forma molto limitata il regime parlamentare. Qui, peraltro, le armi messe in campo per esportare la democrazia furono le più terribili e feroci mai adoperate, e immaginate, in tutta la storia umana, cioè le due bombe atomiche (in aggiunta ai bombardamenti a tappeto con bombe incendiarie, che devastarono anche le città tedesche). Il sostanziale successo della liberaldemocrazia in Giappone, benché con un percorso faticoso e per molti aspetti singolare, farà da apripista per l’affermazione della liberaldemocrazia in altre realtà dell’Estremo Oriente, la Corea del Sud e Taiwan, che è parte della grande nazione cinese. Va notato poi che, sempre in Asia, nel Novecento anche gli inglesi hanno sostanzialmente esportato la democrazia con le armi, cioè come lascito del loro dominio coloniale: in India, che è di gran lunga la più popolosa democrazia del mondo, e a Hong Kong, anch’essa parte della grande nazione cinese e i cui abitanti oggi lottano coraggiosamente per mantenere, contro il regime della Cina popolare, quelle istituzioni liberaldemocratiche trapiantate lì dai colonizzatori.

A quanto pare, quindi, i diritti umani e l’aspirazione alla libertà hanno un valore e una presa che va ben oltre la cultura europea e occidentale; e potrebbero, a determinate condizioni, perfino venire imposti con la forza. Sul versante opposto non è un caso che, nella storia, chi si oppone alla democrazia liberale, autocrati di qualsivoglia orientamento, abbia spesso fatto ricorso, per giustificarsi, a qualche sorta di relativismo culturale, cioè all’eccezionalità del suo popolo e della sua nazione rispetto alla narrazione liberale; ai tempi del fascismo, anche nella stampa italiana si poteva leggere che la democrazia parlamentare andava bene forse per gli inglesi, non certo per il popolo italiano, che invece aveva bisogno di un Duce.

Se tutto questo è vero, occorre però riconoscere anche che il secondo ambizioso tentativo di esportare la liberaldemocrazia con le armi messo in atto dagli Stati Uniti, quello degli anni Duemila nel Medioriente e in Asia Centrale, è risultato un plateale fallimento. Ed è fallito, in questi decenni, anche il tentativo di esportare la liberaldemocrazia in modo pacifico pure in Paesi che non erano in fondo così distanti da noi culturalmente e storicamente: la Russia ne è l’esempio più grave, lì dove gli entusiasmi iniziali si sono presto raffreddati, in parallelo con il procedere di una gravissima crisi economica, al punto che oggi il regime di Putin è diventato il massimo fautore al mondo della «democrazia illiberale». Se invece l’esportazione della democrazia nell’Est Europa è sostanzialmente riuscita, pur fra difficoltà e con qualche eccezione (l’Ungheria), lo si deve alla parallela prospettiva di integrazione nell’Unione europea e alla correlata prosperità; lo stesso vale, negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, per i Paesi del Sud Europa (Spagna, Portogallo, Grecia).

L’integrazione economica e l’orizzonte di prosperità, promesso e concreto, hanno in effetti rappresentato un fattore importante per il successo dell’esportazione della democrazia anche nei tre grandi casi successivi alla Seconda guerra mondiale cui si è fatto cenno, Germania, Italia e Giappone. Non erano solo parole, o trattati e opere di ingegneria istituzionale, ma aiuti concreti, in Europa ad esempio con l’Unrra e poi con il Piano Marshall (così come erano aiuti concreti i fondi di coesione Ue negli anni Novanta e Duemila, che i Paesi iberici ed Est europei hanno bene utilizzato). Assieme agli aiuti materiali vi era poi anche, in linea di massima, una certa coerenza dei valori, vale a dire una narrazione tutto sommato credibile agli occhi dei cittadini: lo stato di diritto, la prospettiva di una progressiva espansione dei diritti umani (civili, sociali, culturali, economici) e delle libertà reali, che doveva garantire a ogni persona la possibilità di ricercare la propria felicità, rendevano in effetti le nostre società aperte più attraenti rispetto a quelle del blocco sovietico (o ad altri modelli autoritari come la Spagna franchista); non solo perché più prospere, aspetto non secondario, ma perché, in concreto, più libere.

Naturalmente la Guerra fredda, nel campo occidentale, non è stata solo questo. Gli Stati Uniti hanno perseguito anche una strategia «realista» che li ha portati non di rado, come dall’altra parte faceva l’Urss, a calpestare la democrazia e le libertà dei popoli, in nome dell’allineamento al blocco occidentale. La Guerra fredda però è stata vinta grazie a questo: cioè non con i colpi di Stato e la strategia della tensione, ma perché abbiamo convinto i cittadini del blocco orientale che le nostre società erano migliori. Non con Pinochet, verrebbe da dire, ma con il modello sociale europeo.

Assieme ai motivi materiali (gli aiuti economici e le istituzioni della prosperità), pure i motivi ideali hanno giocato un ruolo nella storia del liberalismo, e non andrebbero sottovalutati

Assieme ai motivi materiali (gli aiuti economici e le istituzioni della prosperità, in genere centrate sulla compresenza di Stato e mercato e sulla liberalizzazione dei commerci), pure quelli ideali hanno quindi giocato un ruolo nella storia del liberalismo (come in generale della storia umana), e non andrebbero sottovalutati. La crisi del liberalismo fra le due guerre, che ha portato all’affermazione dei regimi fascisti e nazisti in gran parte d’Europa, da un lato, e alla crescita della fascinazione comunista anche presso le élite colte dell’Occidente, dall’altro, è dovuta anche a una profonda contraddizione sul piano ideale fra aspirazioni all’uguaglianza e difesa dei privilegi economici, fra autodeterminazione dei popoli e ostinazione colonialista, fra gli appelli pubblici e gli accordi segreti, fra i diritti dell’uomo centrati sulla libertà e la feroce costrizione della guerra di trincea.

Se gli incentivi economici e la coerenza ideale furono decisivi già nel Novecento, al giorno d’oggi, nell’attuale arena geopolitica, lo sono presumibilmente ancora di più. Ai nostri tempi, la contesa con le potenze del capitalismo autoritario, con la Russia e la Cina, non può essere risolta sul piano militare, come è avvenuto con la Seconda guerra mondiale: realisticamente, in Russia e in Cina la democrazia non può essere esportata con le armi. Al campo delle democrazie liberali rimane una sola strada: convincere del fatto che i suoi valori, vale a dire il rispetto dei diritti umani a partire dalle libertà civili e politiche, e dello stato di diritto, siano preferibili, per tutti, e hanno valore universale. Questo non vuol dire naturalmente che non bisogna farsi trovare preparati a ogni evenienza (nel breve periodo, per esempio, aiutare l’Ucraina a difendersi). Ma è necessario riconoscere e valorizzare l’unica arma davvero decisiva che abbiamo nel medio e lungo periodo: la nostra libertà, puntellata dalla legge. Storicamente questa ci rende più forti, non più deboli: perché a livello individuale la garanzia per ciascuna e ciascuno di poter dire e scrivere quello che pensa, e più in generale di ricercare liberamente la propria felicità, aumenta la nostra qualità della vita e ci rende quindi più attrattivi; e poi perché su una scala più ampia la libertà di critica contribuisce a migliorare la politica, l’economia e la scienza, ad esempio perché consente più facilmente riconoscere e correggere gli eventuali errori commessi.

Affinché questo discorso sia convincente, sono però necessari due elementi: uno materiale (o economico), l’altro ideale (o culturale). Dal punto di vista materiale, l’Occidente deve offrire e mantenere sia al suo interno (verso i suoi cittadini), sia all’esterno (verso gli altri Paesi) la promessa della prosperità e della mobilità economica. Sul piano interno l’obiettivo è più facilmente raggiungibile con politiche interventiste, incentrate sulla collaborazione fra pubblico, privato e Terzo settore, che in questi decenni sono però mancate: cioè investendo nella conversione ecologica e nelle tecnologie di frontiera, rafforzando la spesa sociale e l’istruzione e sanità pubbliche, ponendo e programmando grandi obiettivi collettivi (ambientali e sociali) da raggiungere con il concorso delle diverse forze economiche e sociali. Tutto questo, da finanziare con tassazioni progressive su capitali, redditi e profitti e, se necessario, con nuovo debito (volto a creare crescita e giustificabile, agli occhi delle generazioni future, con il fine di non compromettere gli ecosistemi in cui vivranno), meglio, nel caso dell’Unione europea, se su scala continentale. Va fatto, poi, verso gli altri Paesi che come noi scelgono di condividere le istituzioni della democrazia liberale e gli ideali dei diritti umani, con aiuti volti soprattutto ad affrontare i costi della transizione ecologica, con una ridefinizione dell’ordine economico internazionale che salvaguardi la libertà di commercio ma torni a porre vincoli e regole al capitalismo finanziario, con una condivisione della ricerca di base e delle innovazioni che superi l’attuale sistema dei monopoli intellettuali e dei brevetti. Occorrono insomma politiche che abbiano la forza, la capacità e il coraggio di ridistribuire ricchezze, opportunità e anche conoscenze e potere da una minoranza di fortunati alla grande maggioranza dei cittadini, e dall’Occidente al Sud del mondo.

Il secondo elemento attiene alla coerenza ideale del nostro «modello». Anche qui, innanzitutto, al nostro interno: nella difesa della democrazia liberale a partire dal pluralismo dei poteri, dalla libertà di manifestazione e di dissenso, dalla libertà di stampa anche quando scomoda (esemplare in negativo è la vicenda di Julian Assange, ben spiegata su questa rivista da Alberto Mingardi), dai diritti delle minoranze, o dei detenuti, o dei migranti; se necessario, anche grazie all’intervento di istituzioni comuni sovranazionali, a partire, nel nostro caso, dall’Unione europea e dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

In questi anni le democrazie occidentali sono apparse, e sono state, profondamente contraddittorie nella difesa dei diritti umani e dello stato di diritto

Ma questa coerenza va difesa, anche, nella nostra proiezione internazionale. In questi anni le democrazie occidentali sono apparse, e sono state, profondamente contraddittorie nella difesa dei diritti umani e dello stato di diritto. Abbiamo spesso applicato un doppio standard, seguendo un’impostazione teorizzata e messa in pratica da una parte dell’amministrazione Usa già all’epoca della Guerra fredda (e che ebbe come principale risultato di minare gravemente l’autorevolezza di quel Paese in America Latina). Dopo l’attentato alle Torri Gemelle, gli Usa sono tornati senza grandi remore alla politica del doppio standard, da Guantanamo (diritti umani) all’attacco all’Iraq (la più grave violazione del diritto internazionale degli ultimi decenni, fino all’invasione dell’Ucraina); non hanno nemmeno ratificato il trattato istitutivo della Corte penale internazionale, pur avendolo firmato nel 1998.

Ma anche l’Unione europea, che pure è riuscita faticosamente a risollevarsi dagli abissi delle due guerre mondiali, del nazi-fascismo e dell’imperialismo, ha in questi anni accettato le gravissime violazioni dei diritti di cui sono vittime le persone migranti, in Nord Africa e nel mar Mediterraneo. Un doppio standard è osservabile, poi, rispetto ai Paesi alleati: verso di loro, in nome di un male inteso realismo, noi tendiamo più facilmente a chiudere un occhio, proprio perché nostri alleati (come l’Arabia Saudita) e a volte anche liberaldemocrazie (Israele). Ma, in realtà, siamo proprio noi i primi che dovremmo chiedere conto loro delle violazioni dei diritti: perché quelle violazioni tradiscono innanzitutto i nostri valori (non quelli dei nostri avversari, anzi). Dovremmo essere noi i primi, per intenderci, e con più forza, a denunciare e condannare i crimini di guerra del governo Netanyahu: la logica «amico/nemico» è incompatibile con quella coerenza di cui l’Occidente ha bisogno, come suo punto di forza rispetto alle autocrazie (non a caso, è adoperata invece dalla Russia e dalla Cina).

La sfida con le potenze del capitalismo autoritario può essere vinta, nel medio e lungo periodo (come avvenuto con la Guerra fredda), se le democrazie occidentali prendono coscienza di quelli che sono i loro punti di forza e cercano di valorizzarli con una strategia coerente. Per fare questo, è necessario rifiutare ogni ambiguità nella difesa della democrazia liberale, abbandonare la confusione strategica nelle relazioni internazionali (sovrapporre ad esempio la logica amico/nemico a quella dei valori irrinunciabili) e superare la persistente timidezza nelle politiche economiche, sul piano interno e su scala globale.