L’egemonia tedesca in Europa è un prodotto dell’Unione monetaria europea e della crisi del 2008. Non fu tuttavia la Germania a volere l’euro: fin dagli anni Settanta, le sue industrie di esportazione avevano convissuto molto bene con le ricorrenti svalutazioni dei partner commerciali europei, in risposta alle quali la produzione manifat­turiera tedesca si spostò da mercati price-sensitive a mercati quality-competitive. A volere una valuta comune europea fu soprattutto la Francia, per superare l’umiliazionedella svalutazione del franco rispetto al marco e, dopo il 1989, per vincolare la Germania unifica­ta a un’Europa unita, auspicabilmente a guida francese. 

Fin dalla sua concezione, l’euro fu una costruzione contraddittoria. La Francia e altri Paesi europei, come l’Italia, erano stanchi di dover seguire la politica di tassi d’interesse da moneta forte della Bundesbank, che era diventata defacto la banca centrale d’Europa. Sostituendo la Bundesbank con la Banca centrale europea, essi si aspettavano di recuperare almeno una parte della sovranità moneta­ria perduta a favore della Germania.

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Oggi è la Germania, insieme a Paesi come l’Olanda, l’Austria o la Finlandia, che sta godendo dei vantaggi dell’Unione monetaria europea. Ma è importante ricordare che è così soltanto dal crollo finanziario del 2008. Durante i primi anni dell’unione monetaria, la Germania era «il malato d’Europa», e l’unione monetaria contribuì parecchio a questo stato. Il tasso d’interesse comune imposto dalla Bce, che doveva tenere conto delle economie di tutti i Paesi mem­bri, era troppo alto per un’economia a bassa inflazione come quella tedesca.

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Un’alternativa sarebbe stata quella di forti aumenti salariali a se­guito di una decisa spinta sindacale. Ma in un Paese fortemente industrializzato e dipendente dall’esportazione, come la Germania, questo avrebbe significato non solo minori esportazioni ma anche, in un’epoca di sempre maggiore mobilità del capitale, una delo­calizzazione del lavoro all’estero. Ciò spiega quella che per tanti osservatori stranieri rimane una misteriosa moderazione dei sinda­cati tedeschi fin dall’inizio del 2000. A confronto, le economie più inflazionistiche del Mediterraneo godettero di tassi di interesse reali molto bassi o negativi, insieme al forte calo del costo del debito pubblico, nella convinzione dei mercati finanziari – incoraggiati dal­la Commissione europea – che con la moneta comune ci sarebbe stato anche qualche tipo di responsabilità comune nel garantire la solvibilità degli Stati membri. Il risultato fu un boom nel Sud e la stagnazione, con alta disoccupazione e crescente debito pubblico, in Germania.

 

La Germania risorge

[…] Ciò che davvero pesò fu che l’economia tedesca, tradizionalmente spinta dalla domanda estera e in perenne «sovra-industrializzazione», dopo il 2008 si trovava in po­sizione di esaudire la domanda di prodotti manifatturieri di alta qua­lità sul mercato globale. Di conseguenza, essa soffrì a causa della crisi fiscale e del crollo del credito molto meno dei Paesi dell’Unio­ne più dipendenti dalla domanda interna. Inoltre, quando divenne chiaro che non ci sarebbe stata alcuna mutualizzazione del debito pubblico degli Stati membri meridionali – il che, naturalmente, era del tutto in linea con i trattati, anche se era stato opportunisticamen­te dimenticato – i Paesi con alto debito dovettero pagare interessi molto più cospicui, sollevando così l’eventualità di default di parec­chi Stati membri. Fu a questo punto che la Germania, senza averla voluta o cercata, conquistò la nuova egemonia del continente.

 

 

La Germania post-bellica non desiderò mai guidare l’Europa. I leader politici tedeschi, di qualsiasi partito, convennero che come potenza europea la Germania avesse un problema di fondo tale da richiedere una gestione delicata: era troppo grande per essere amata e troppo piccola per essere temuta.

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i problemi di Angela Merkel sono enormi: sia in Europa, dove l’integrazione si è rivelata un disastro economico e politico e la Germania appare grande abbastanza da prendersi la colpa di tutto ciò che non va ma ancora troppo piccola per porci rimedio; sia all’interno, dove il consenso centrista della politica tedesca è prossimo al collasso.

 

L’Europa divisa

[…] Nei Paesi del Mediterraneo, e in parte anche in Francia, la Germania di oggi è odiata come non mai dalla fine della guerra. I dirigenti tedeschi sono raffigurati in uniforme della Wehrmacht con tanto di svastiche. Il modo più sicuro per vin­cere le elezioni è di impostarle come campagne contro la Germania e la sua cancelliera, da parte tanto della destra quanto dalla sinistra. Anche tralasciando ogni altro risultato che possa derivare dal quan­titative easing disposto della Bce, la misura ha certamente prodotto un senso di trionfo dell’Europa meridionale sulla Germania, sconfit­ta dalla direzione stessa della Bce. L’eroe d’Italia è Mario Draghi, a prescindere dal suo credo liberista e dal suo passato alla Goldman Sachs: ciò che gli viene riconosciuto è di avere ripetutamente gabbato e umiliato «i tedeschi». Il nazionalismo oggi è trionfante in Europa, e sta cominciando a montare anche in quello che per tanto tempo è stato il Paese meno nazionalista del continente, la Germania. In Europa meridionale la politica estera consiste sempre più nello strappare concessioni alla Germania – su come imbrigliare la Germania nell’interesse del proprio Paese, della «solidarietà euro­pea» e dell’umanità in generale. Nessuno può prevedere quanto tempo ci vorrà, se mai sarà poi possibile, a rimarginare la ferita emotiva che l’euro ha prodotto nei rapporti fra la Germania e Paesi come l’Italia o la Grecia.

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Una battaglia fra due linee

Un regime monetario unificato per economie (nord-europee) «ri­sparmia e investi», da un lato, ed economie (sud-europee) «prendi a prestito e spendi», dall’altro, non può servire bene entrambe. Se si vuole una valuta comune, una delle due economie politiche deve «riformare» il suo sistema di produzione, e il patto di pace sociale su di esso basato, sul modello dell’altra. Allo stato attuale, i trattati fan­no ricadere l’onere sui Paesi mediterranei, obbligandoli a «cambiare» per diventare «competitivi», con la Germania come loro regista di inflessibilità monetaria. Come si può vedere, questo non è quello che i loro governi possono fare, o possono fare in breve tempo, o vogliono fare.

Il risultato è una battaglia fra due linee all’interno dell’Unione monetaria: una battaglia che sta diventando odiosa perché non si riflette soltanto sui livelli materiali di vita delle persone, ma anche sulle loro abitudini più consolidate (come rivelano i cliché negativi su entrambi i lati dello scontro: i «greci poltroni» contro i «tedeschi algidi» che «vivono per lavorare e non lavorano per vivere» e, difendendo sia i trattati sia il proprio assetto capitalista, appaiono come spietati castigamatti dei loro vicini europei). I tentativi dei Paesi meridionali di avere un euro «leggero», in modo da poter tornare ai tassi di inflazione, ai debiti pubblici e alle svalutazioni periodiche a cui erano abituati, incontrano la resistenza dei governi e degli elettorati nord-europei, i quali rifiutano di essere trasformati in creditori d’ul­tima istanza dei loro vicini meridionali e di pagare per le iniezioni di liquidità senza le quali l’economia politica di questi ultimi non può riprendersi e prosperare.

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Le disparità regionali, esacerbate dall’austerità, chiederanno voce politica in seno all’unione monetaria, sul modello di Stati-nazione come Italia e Germania. Qui il Mezzogiorno e i Neue Länder, rispet­tivamente, traggono beneficio e dipendono dal sostegno continuo da parte dei governi nazionali per cercare di attenuare il divario fra tenori di vita regionali. Italia e Germania trasferiscono ogni anno grosso modo il 4% del loro pro­dotto interno alle regioni arretrate, e tuttavia ciò basta solo a impedi­re che il divario esistente fra regioni si approfondisca ulteriormente.

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L’erosione del consenso

Quanto ancora Angela Merkel e la sua Grande Coalizione, schiac­ciate fra i loro partner europei e il loro elettorato, saranno in gra­do di destreggiarsi? […] Le industrie d’esportazione e i sindacati tedeschi hanno fatto del mantenimento dell’unione monetaria la loro priorità assoluta, e con l’aiuto della sinistra euro-idealista hanno sacralizzato l’euro in ma­niera davvero singolare, considerato che si tratta poi solo di una valuta. Angela Merkel, sempre attenta alla base del suo potere nel Paese, è sempre stata coerente con il suo celebre slogan, «se fallisce l’euro, fallisce l’Europa». Essendosi vincolato all’euro in nome di alti obiettivi morali, il suo governo deve oggi patire la dolorosa e umi­liante esperienza di essere osservato e valutato nelle sue possibilità di concessione nell’ambito della dura contrattazione internazionale che caratterizza la vita quotidiana europea sotto l’unione monetaria. Di recente, il nuovo governo greco, ben più esperto in teoria dei giochi dei suoi remissivi predecessori, avendo firmato un accordo di «riforma» in cambio di una promessa di denaro contante, ha te­nuto gli occhi puntati sul ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, mentre questi cercava di convincere il suo partito alla ra­tifica in parlamento. Un giorno prima del voto, il suo collega greco dichiarò l’accordo privo di sostanza, aggiungendo che si sarebbe dovuti arrivare proprio alla cancellazione del debito greco, cosa che Schäuble aveva appena dichiarato al Bundestag essere fuori discus­sione. Il ministro greco dovrebbe essersi accorto che il suo collega tedesco ha continuato a spendere un significativo capitale politico per fare approvare quell’accordo.

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c’è «euroscetticismo» in Germania, cioè dove era meno probabile trovarne finora. Un nuovo partito, la AfD («Alternative für Deutschland), minaccia di erodere la destra dello spettro politico della Cdu. Per limitare i dan­ni, i partiti del centro, compreso la Spd, dovranno fare molta atten­zione a qualsiasi concessione europea sarà un domani loro richiesta dagli altri Paesi. Finora, i versamenti di denaro nell’ambito dell’U­nione europea e dell’Unione monetaria europea sono stati nascosti nei fondi sociali o regionali per l’Europa. Ma le somme che l’unio­ne monetaria richiederà, non tanto per il «salvataggio» della Grecia, quanto soprattutto come prassi corrente in conseguenza di quest’ul­timo, saranno troppo grandi per essere mimetizzate nei soliti modi. Parecchie cause di fronte alla Corte costituzionale hanno contribuito a politicizzare P«Europa» e ad allarmare il pubblico tedesco.

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Conclusioni

Nonostante la sacralizzazione della moneta unica, l’economia tede­sca potrebbe trovare il modo di fare a meno dell’euro.

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A fronte dell’insorgere di un nazionalismo populista, le élite poli­tiche tedesche potrebbero trovare consigliabile abbandonare la loro identificazione ideologica dell’euro con l’«Europa» e dare ascolto al crescente numero di economisti che, anche in Germania, stanno cominciando a pensare a un regime monetario europeo alternativo, più flessibile, meno unitario. Magari questa potrebbe non essere la soluzione ideale, però bisogna ricordare che le soluzioni idea­li non sono normalmente dispo­nibili all’interno di un’economia capitalista, con le sue contraddizioni interne. Le esportazioni tedesche potrebbero soffrire per un po’, ma i contribuenti tedeschi potrebbero trarne beneficio, e con loro la reputazione tedesca fra i Paesi vicini. Ricordando la rapida inversione di Angela Merkel sull’energia nucleare, non si può escludere in assoluto che essa a un certo punto decida di ri­manere nella storia come la liberatrice dell’Europa da una moneta comune rivelatasi un incubo comune.

 

[Questo è un estratto dell’articolo di W. Streeck, L’egemonia tedesca che la Germania non vuole, pubblicato su «il Mulino», n. 4/2015, pp. 601-613, acquistabile qui nella versione integrale]