Negli scorsi anni abbiamo tutti creduto che la crisi finanziaria globale del 2007-2009 fosse destinata a diventare, per l’immaginario collettivo della nostra generazione, quello che la Grande depressione seguita al crollo di Wall Street del 1929 è stata per la generazione dei nostri nonni. Ma non avevamo fatto i conti con il Coronavirus. La crisi che ha investito l’economia mondiale all’inizio di quest’anno ha avuto un impatto devastante, con quasi tutti i Paesi che avranno cali del Pil e aumenti della disoccupazione ben più drammatici di quelli del 2009. Le stime più ottimiste per l’Italia (del Fondo monetario internazionale), ad esempio, prevedono per il 2020 una contrazione del Pil del 9,1%, a fronte del calo del 2009 che era stato del 5,3%. Il dato più impressionante per misurare la crisi in corso riguarda però il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti, che era cresciuto dal 4,4% del maggio 2007 fino al 10% dell’ottobre del 2009, per poi calare di nuovo fino al livello record di 3,5% nel febbraio 2020. Due mesi dopo, le conseguenze della pandemia avevamo già portato quello stesso valore al 14,7%.
Ma non è solo la scala senza precedenti che rende gli eventi di questi mesi straordinari. L’impatto economico della crisi sanitaria, infatti, sfugge a tutte le categorie a cui i macroeconomisti ci hanno abituato. Sia pure con tempi di reazione diversi, la stragrande maggioranza dei governi ha di fatto congelato una larga parte dell’attività economica per imporre il distanziamento sociale e impedire l’aumento esponenziale di contagi e decessi.
Il crollo improvviso e simultaneo di redditi e produzione impedisce di utilizzare le categorie standard della macroeconomia. Si è sciolta come neve al sole la domanda aggregata, vittima di un crollo dei redditi e di un’incertezza che ancora oggi regna sovrana. Ma è crollata anche l’offerta aggregata, vittima in primo luogo della chiusura di tutte le attività non essenziali da parte dei governi ma anche del disarticolamento delle catene internazionali del valore e del crollo degli ordini. È proprio il carattere globale della crisi a provare come l’iniziale discussione sull’alternativa tra il salvare le vite (con il lockdown) e il salvare l’economia (puntando all’immunità di gregge) fosse mal posta. La crisi economica sarebbe stata inevitabile comunque: con il diffondersi del virus, consumi e investimenti sarebbero crollati causando un lockdown economico indipendentemente dal lockdown amministrativo. Lo provano i rari Paesi (come la Svezia) che, nonostante la scelta di non chiudere l’economia, non sono riusciti a sfuggire a una crisi di entità simile a quella dei loro vicini che hanno optato per misure drastiche di contenimento.
La natura peculiare della crisi del Covid-19 spinge a sperare che la ripresa sia più rapida rispetto al dopo 2008. In quel caso la crisi è stata l’inevitabile risultato di due decenni di crescita squilibrata, che ha visto il settore finanziario crescere a dismisura, il debito e gli squilibri di bilancia dei pagamenti raggiungere livelli record. Perché la crisi fosse messa dietro alle spalle, quindi, occorreva che alle misure che hanno sostenuto l’attività economica si accompagnasse un riequilibrio dell’economia (in particolare una riduzione del debito privato). Molte delle cause profonde della crisi finanziaria globale (la disuguaglianza crescente, la riduzione del ruolo dello Stato sociale, la mancanza di uno «Stato regolatore») sono ancora presenti; tuttavia, l’economia mondiale prima di essere colpita dalla pandemia non esibiva gli stessi squilibri macroeconomici del 2007, all’alba della crisi finanziaria globale. Nessuno crede più a una ripresa a «V», con un rimbalzo che consenta di recuperare in pochi mesi le perdite di questi mesi. Ma si può comunque sperare che una volta tolta la pressione esercitata dalla crisi sanitaria la ripresa possa essere più robusta e più rapida di quanto non sia stato dopo il 2008.
La condizione necessaria, sia pure non sufficiente, perché la ripresa sia rapida è che le politiche adottate in queste settimane da governi e istituzioni europee abbiano avuto successo nel tenere in vita il sistema produttivo ibernato dal lockdown. Fin dall’inizio, la sfida per governi e banche centrali è stata quella di evitare che le difficoltà temporanee di imprese fondamentalmente sane ne causassero il fallimento. Si trattava insomma di tenere a galla a qualunque costo le imprese, soprattutto piccole e medie, che non erano in grado di far fronte ai loro impegni finanziari, in modo che al momento della ripresa queste potessero accompagnare la ripresa dei consumi e della domanda aggregata.
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 3/20, pp. 422-430. Il fascicolo è acquistabile qui]
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