Quando, nell’estate del 1989, da giovane dottorando, mi recai per la prima volta nell’«altra» Germania, avevo in tasca il permesso del Consiglio dei ministri della Repubblica democratica tedesca (Rdt) di visitare l’Archivio di Stato centrale di Dresda. Proprio lì era custodito un gran numero di documenti che mi servivano per la mia ricerca: la storia del movimento operaio in Sassonia. Il Regno di Sassonia era stato uno dei luoghi di nascita del movimento operaio europeo moderno. A Dresda il movimento rivoluzionario nel 1848-49 era salito sulle barricate; a Lipsia era stato emesso il certificato di nascita del Partito socialdemocratico nel 1863, con Ferdinand Lassalle. Sei anni dopo nella vicina Turingia, ad Eisenach, era stato battezzato il secondo Partito socialdemocratico, ai cui vertici c’erano August Bebel e Wilhelm Liebknecht. Nel 1875 i due partiti si unirono nella città confinante di Gotha e nel 1890 a Erfurt, ad appena trenta chilometri, fu approvato il leggendario programma marxista della Spd, elaborato da Karl Kautsky ed Eduard Bernstein. Vent’anni dopo, prima dello scoppio della Prima guerra mondiale, la Sassonia, Stato federale del Kaisserreich, con i suoi quasi cinque milioni di abitanti, era divenuta una delle roccaforti più ammirate del movimento operaio europeo, un «regno rosso» con centinaia di migliaia di attivisti, numerosi deputati al Reichstag, significativi giornali di partito, cooperative di successo e altre organizzazioni della Spd.
Per me il movimento operaio della Germania centrale e la Repubblica democratica erano terrae incognitae. Primo perché non era stato quasi mai studiato a causa dell’impossibilità di accedere ai suoi documenti, fino a quel momento negati per la ricerca di studiosi occidentali. Secondo perché a lungo la storiografia marxista-leninista aveva gelosamente vigilato affinché fosse esclusivamente un suo compito scrivere la storia della socialdemocrazia sul suolo del «socialismo reale» e non lasciare questo compito agli storici revisionisti dell’Occidente. Che adesso uno di questi storici non venisse tenuto lontano dai documenti della socialdemocrazia era un segno del cambiamento.
La Repubblica democratica, invece, mi appariva un Paese sconosciuto che valeva la pena di scoprire. Non avevo seguito il consiglio di alcuni colleghi – cercarmi un tema per la tesi dottorale che mi portasse lontano, ad esempio negli Stati Uniti, e non nel vicino Stato tedesco. La cosa mi appariva ancor più interessante proprio perché per un tedesco dell’Ovest era più facile andare negli Stati Uniti che nella Germania Est. Quando vi arrivai, nell’estate del 1989, c’era un grande fermento, tuttavia nessuno di quelli con i quali parlai poteva immaginarsi che nemmeno sei mesi dopo questo bastione del socialismo reale sarebbe caduto. Molti giovani tentavano di lasciare la loro patria tramite terzi Stati socialisti. Ad esempio, rifugiandosi, nel corso delle vacanze estive nell’ambasciata della Germania Ovest di Praga; condotti nella Repubblica federale nel settembre del 1989 grazie a treni speciali che non si fermavano nella stazione di Dresda. I più vecchi restavano, dicevano che avrebbero dovuto lasciare indietro troppo della loro vita. Una minoranza di dissidenti, oppositori e riformisti nella Sozialistische Einheitspartei Deutschlands (Sed) s’impegnò, sulla base della Perestroika nell’Unione Sovietica, per un nuovo, migliore Stato tedesco. Mi trovavo nel pieno di questo avvenimento. Uno storico alle prime armi testimone di una svolta mondiale: che battesimo del fuoco!
I critici del regime e i riformisti della Sed sognavano un socialismo dal volto umano. In tal modo, guardavano indietro, al passato, in particolare alla Primavera di Praga del 1968, considerata un modello storico per la liberazione da un socialismo dispotico che avrebbe finalmente portato a una comunità liberale, democratica e socialista, che questa volta non sarebbe stata schiacciata dai carri armati russi. Ma gli ideologi sono stati superati dalle persone a nome delle quali avevano parlato e per le quali si erano levati in piedi esponendosi in prima persona.
[L'articolo completo è pubblicato sul "Mulino" n. 5/20, pp. 787-795. Il fascicolo è acquistabile qui]
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