Tanto alle ultime elezioni politiche quanto in occasione delle recenti tornate amministrative la partecipazione elettorale è diminuita. Questo, hanno sostenuto molti, è un “pericolo per la democrazia”. Come sempre siamo alle esagerazioni e alle iperboli, tratti caratterizzanti di un Paese come il nostro che, non per nulla, ha inventato il melodramma. A questa interpretazione catastrofica, veicolata da giornalisti e commentatori omnibus in duetto con politici di ogni colore, si è contrapposta quella dei politologi che, classica vox clamans in deserto, continuavano a ripetere che non c’era da preoccuparsi per la “tenuta” del sistema democratico. Per due ragioni, fondamentalmente. La prima è di natura sostanziale, la seconda di tipo comparato. Partiamo dalla seconda.
In tutte le democrazie consolidate la partecipazione elettorale è in calo da decenni. I livelli del dopoguerra non sono mai stati recuperati. Anche l’Italia , più lentamente rispetto ad altri Paesi, si è allineata a questa tendenza. E nonostante il calo marcato delle ultime elezioni (ma nel 2008 c’era stato un piccolo rimbalzo positivo) si trova nel gruppo dei più partecipanti. Quindi se dobbiamo preoccuparci noi della “tenuta”, chissà che drammi vanno in scena negli altri Paesi. La seconda ragione investe il significato stesso dell’atto del voto. Per nazioni come la nostra, che ha raggiunto la piena democratizzazione in una fase storica recente, il votare tutti e liberamente assunse un significato particolare, quello della libertà conquistata.
Si può allora comprendere una certa enfasi, o meglio la si poteva comprendere nei primi decenni postbellici, ma ora il voto è un atto “normale” della vita politica. E in quanto tale può essere o non essere esercitato “liberamente”. Anche l’astensione è un atto di partecipazione politica. È una scelta sempre più diffusa, e nemmeno inedita (si pensi all’indicazione delle sinistre francesi per l’astensionismo nei referendum gollisti) , che non va più rubricata tra i comportamenti “anomici”, di coloro che sono lontani ed estranei per ragioni socioculturali dal circuito politico. Come ricordava alcuni anni fa Giacomo Sani, gli astensionisti si caratterizzano sempre più non per la lontananza dalla politica ma, al contrario, per un rapporto molto stretto e caldo nei suoi confronti e reagiscono con passionalità rifiutando il voto con rabbia.
Non è quindi il calo della partecipazione in sé il problema, bensì le sue motivazioni. Tra l’altro, più si va votare meno si vota: il timing conta. Stati Uniti e Svizzera insegnano: sono Paesi dove si vota continuamente per mille cariche e mille questioni ai vari livelli. E quindi andare alle amministrative tre mesi dopo le politiche non poteva certo rimobilitare l’elettorato. Ora tocca alla Sicilia, ed è inevitabile che i partecipanti siano diminuiti ulteriormente. Drammatizzare i numeri in sé, quindi, non ha alcun senso. Chiedersi il perché ci sia un calo è invece importante dal momento che, diversamente da Stati Uniti e Svizzera, da noi esiste un sottofondo antisistemico, di insofferenza verso le regole del gioco democratico, che gli altri Paesi non hanno. Piuttosto che ai numeri meglio puntare l’attenzione sulle ragioni: il 35% di astenuti in Gran Bretagna non ha lo stesso significato del nostro 25%.
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