Quando arrivarono sul mercato di massa i primi telefonini-ferro da stiro, forse non era necessario essere grandi e profetici intellettuali per capire che la loro comparsa non avrebbe rappresentato un aumento della nostra libertà, ma invece una sua limitazione. Lo disse, mi pare, in una sua «Bustina di Minerva» dei primi anni Novanta un grande e profetico intellettuale come Umberto Eco. Eppure, come per ogni innovazione tecnologica di cui si intuisce almeno vagamente la portata, anche l’avvento del telefonino per tutti regalò, a molti, l’illusione di poter godere di maggiori spazi di libertà. Argomento delicato e pericoloso, più consono al dibattito filosofico (ci fosse: se c’è non si vede e se ne sente la mancanza) che al pensiero pseudo-sociologico (che c’è, si vede, e di certo non ci manca). Oggi che ai vecchi e simpatici Motorola Startac abbiamo sostituito l’immancabile smartphone, ci siamo accorti che quanto veniva preconizzato allora ha trovato immancabile riscontro nella realtà. Consapevoli e recidivi, e dunque doppiamente colpevoli, ci ostiniamo a imbragare i ritmi delle giornate al controllo ossessivo della nostra (o delle nostre) caselle di posta elettronica, all’uso compulsivo di Facebook e di Twitter, al dialogo mediato dalla Rete, sia che si debba interagire con un collega che vive dall’altra parte del mondo, sia che si debba comunicare con chi lavora a due metri da noi. Crediamo di potere fare a meno di dizionari e garzantine installando ossessivamente nuove apps, ignoriamo del tutto anche gli strumenti bio-bibliografici più affidabili. Salvo poi lamentarci se i nostri figli fanno altrettanto e, udite udite, non leggono più libri e registrano qualche difficoltà a concentrarsi su un testo per più di sessanta secondi.

Quando, agli albori della telefonia mobile, frequentavo un ristorante dalle parti di Nonantola (per i non emiliani: visitate l’Abbazia se siete da quelle parti), il gestore obbligava i clienti a depositare il loro «telefono mobile» in un armadietto all’ingresso. Mi dicono che l’obbligo sia ancora in vigore. Perché anche su questo, come su molto altro, non resta che il divieto messo in atto da un vigilante. Non c’è carrozza ferroviaria del silenzio che tenga, infatti, come sa che bene chi viaggia; né spazio dedicato allo studio e alla meditazione immune a sempre più vivaci suonerie, della cui varietà possiamo tutti godere senza limite alcuno. Luoghi un tempo circondati da una sorta di sacralità – biblioteche, chiese, teatri; addirittura l’alta montagna – sono sempre più spesso violati nella loro dimensione originaria. Poche settimane fa ho assistito a un simpatico, per quanto molto acceso, dibattito tra un assistente di volo e un passeggero che vedeva quest’ultimo insistere sull’assoluta necessità, quasi fisica, di tenere il proprio iPhone acceso: era silenziato, che male poteva fare?

Così, nella perenne connessione al mondo che si trasforma nella realtà di una sempre più frequente sconnessione da se stessi, i pochi che osano tardare qualche ora a replicare a un messaggio passano nel migliore dei casi per degli originaloni. Asociali, in una parola. Gente che non ha ancora colto la fantastica dimensione regalataci dall’assedio digitale, regno incontrastato di password e captcha di ogni sorta. È di oggi la notizia, o almeno l’ho appresa questa mattina, che nei motori di ricerca la parola «meteo» ha superato «sesso». Chissà che prima o poi non si torni a dare un’occhiata fuori dalla finestra per vedere se piove o c’è il sole e, per quanto possibile, si ricominci a passare un po’ più di tempo insieme al proprio compagno o alla propria compagna. Possibilmente con il cellulare spento.

Nell’attesa, chi vuole dia uno sguardo a un libro che negli States è diventato un piccolo culto: lo ha scritto nel 2010 Susan Maushart, una mamma single americana, si chiama The Winter of Our Disconnect ed è stato più volte ristampato.