Il sovrapporsi di più situazioni di crisi economiche e politiche nei primi mesi dell’anno ha sospinto molte imbarcazioni a solcare il Mediterraneo dall’Africa verso l’Europa, e in misura ancora maggiore gruppi di persone ad attraversare il fiume Evros, al confine tra Grecia e Turchia. Già alla fine di febbraio il governo italiano aveva lanciato un allarme per la potenziale emergenza data dall’arrivo di “cinquantamila profughi dal Nordafrica”, chiedendo la collaborazione dell’Unione europea, delle Regioni e degli Enti locali.

Per ora, secondo l’Acnur, sono circa duemila. Solo più recentemente è stato posto formalmente il problema dei 20.000 immigrati economici arrivati a Lampedusa e smistati poi in altre località. Ma l’intesa tra governo, Regioni ed Enti locali del 30 marzo riguarda solo il primo punto, che merita attenzione anche se numericamente rappresenta solo il 10% degli arrivi. E’ comprensibile che sui mezzi di informazione e nell’opinione pubblica si sia creata una certa confusione, ma così non dovrebbe essere per le autorità nazionali competenti.

Qualche anno fa nei corridoi della Commissione europea, a Bruxelles, circolava una battuta: ”Un richiedente asilo è semplicemente un clandestino che ha studiato legge”, ma dopo le guerre in Afghanistan e in Irak, i conflitti in Somalia, nel Darfur e in tanti altri Paesi africani, oltre che nel Kosovo, è una battuta che si sente sempre più raramente.

Il diritto d’asilo compare già nella Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (1948) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr, in italiano Acnur) fu istituito nel 1949; nel 1951 fu poi firmata la convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato.

L’impegno della legislazione europea in materia di asilo è molto più recente, poiché fino agli anni Ottanta immigrazione e asilo erano considerate materie di competenza statale e tutt’al più potevano essere regolate nel quadro delle relazioni bilaterali tra gli Stati. Con i trattati di Maasctricht (1992) e di Amsterdam (1999) si sono poste le basi per una comunitarizzazione della materia dell’asilo.

Negli anni Novanta è stata firmata la convenzione di Dublino, dove, sostanzialmente, i Paesi dell’Europa settentrionale e centrale che si erano sempre fatti carico del problema hanno ottenuto che, se il richiedente ha varcato illegalmente le frontiere di uno Stato membro, quest’ultimo sia competente per l’esame della sua domanda. Il baricentro si è così spostato verso i Paesi mediterranei, ma anche verso la frontiera orientale dell’Ue.

L’Europa ha poi varato la direttiva “qualifiche” 2004/83/CE e la direttiva “procedure” 2005/85/CE, mentre la direttiva “rimpatri” 2008/115/CE non è mai stata recepita dal governo italiano, ma è automaticamente entrata in vigore anche per noi dal dicembre 2010.

Per quanto riguarda l’Italia, già la Costituzione aveva citato il diritto d’asilo nell’articolo 10, mentre per le situazioni di emergenza, la legge Turco-Napolitano (1998) ha avuto il merito di introdurre il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Nell’ultimo decennio, però, l’Italia non si è dotata di una legislazione organica in materia di asilo e il sistema attuale appare fragile e scoordinato: centri di accoglienza Cpsa e Cda molto vagamente normati dalla l. 563/95, centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) istituiti dal dlgs n. 25 (28-01-2008), che ha recepito la direttiva “procedure”, ma di cui dopo tre anni manca ancora il regolamento attuativo.

Un totale di una ventina di strutture per circa novemila posti che dovrebbero garantire la prima e seconda accoglienza, mentre il richiedente asilo aspetta di conoscere l’esito della sua domanda da parte di una delle quindici commissioni territoriali.

Esiste poi lo Sprar (Sistema di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati) gestito dagli Enti locali in accordo con il ministero degli Interni che dovrebbe occuparsi della terza fase, in cui, ottenuto lo status di rifugiato, si affrontano le tappe dell’inserimento linguistico, lavorativo e abitativo (tremila posti per un massimo di sei mesi). Ma spesso lo Sprar si fa carico anche della prima accoglienza. Nella realtà, quindi, le distinzioni non sono così chiare, e anche se la strategia del decentramento territoriale ha migliorato la situazione per quanto riguarda sia l’esame delle domande sia l’accoglienza, la mancanza di un disegno organico è evidente.