Circondati da cifre e percentuali di ogni tipo, che ci raccontano lo stato in cui versa il nostro Paese, non dovremmo avere più bisogno d’altro per afferrarne il degrado e per comprendere la perdurante incapacità del nostro ceto politico di fare fronte comune nel contrastarlo. Complice la crisi economica che va ben al di là dei confini nazionali, sono soprattutto i numeri di questa stessa crisi, e delle sue conseguenze, ad essere messi in primo piano nei tanti rapporti periodici con cui istituti di ricerca italiani ed europei illustrano con impietosa regolarità lo stato dell’arte. Eppure, anche chi per mestiere è costretto a fare lettura regolare di questi veri e propri bollettini di guerra non può comprendere sino in fondo che cosa sia davvero il degrado civile e politico dell’Italia contemporanea, se non visita l’Aquila.
A quattro anni dal terremoto che la devastò nell’aprile 2009, la città appare oggi come la metafora di un declino che, poco alla volta, sta erodendo le basi stesse del vivere in comunità; così come della grave insufficienza che da anni segna la politica nel proporre soluzioni e rimedi di medio e lungo periodo. Al di là dell’emergenza, che molto spesso siamo bravissimi a gestire, ciò che resta è uno stato di abbandono e di insufficienza cronica.
La città è deserta. Ancora pattugliata da camionette dell’esercito, che nulla o quasi possono fare nei confronti degli episodi di sciacallaggio che continuano periodicamente. C’è un silenzio rotto soltanto da qualche demolizione (in verità rare, rispetto allo stato di molte costruzioni di nessun valore e che non sarà più possibile recuperare in alcun modo). I cantieri attivi sono pochi. Molti quelli partiti ma poi fermati per mancanza di fondi. Il teatro comunale, ad esempio, è stato riportato in vita grazie al lavoro dei suoi responsabili istituzionali, che hanno saputo mettere a frutto in maniera diretta e concreta i soldi subito raccolti con la solidarietà degli sms e della televisione. Ma la gara per l’appalto più grande, che dovrebbe finalmente far ripartire i lavori per ripristinarne il corpo principale, è ancora al palo. La cosa che più colpisce il visitatore di questa sorta di città fantasma è l’entità delle opere di consolidamento che sono state fatte in questi quattro anni. Ferro, acciaio e legno imbragano e puntellano palazzi, chiese, monumenti; ma anche casupole, modeste palazzine, muri solitari. È l’impero del tubo Innocenti. Anche negli interni dei palazzi. Dopo quattro anni, in una città come l’Aquila – chi la conosce sa quanto siano freddi qui gli inverni, sotto la mole del Gran Sasso – sono necessari periodici “consolidamenti dei consolidamenti”. Così vengono spese le poche risorse disponibili, dopo quelle assai ingenti utilizzate per la “messa in sicurezza”; come viene spiegato dagli aquilani, ormai esperti del settore, le ditte che noleggiano e installano ponteggi e strutture di sostegno fatturano sulla base dei “nodi” di collegamento: e in un solo fabbricato se ne possono contare centinaia.
Agli effetti terribili del terremoto si sommano, in una sorta di effetto moltiplicatore, quelli della ricostruzione. Le cosiddette “new towns”, che nulla hanno a che spartire con l’ambizioso progetto urbanistico dell’Inghilterra di inizio Novecento ma che sono piuttosto, anch’esse, specchio della nostra cronica incapacità di progettare (dal latino [pro] avanti [jacere]: gettare, ciò che viene gettato davanti), insomma di guardare avanti. I cosiddetti “Map”, Moduli abitativi provvisori, costruiti con la consapevolezza che di provvisorio non avranno proprio nulla. Tirati su, necessariamente in fretta e dunque in molti casi male, con costi triplicati rispetto agli standard di mercato, hanno rappresentato, nonostante la tragedia, un affare per alcuni, un dramma sociale per molti. L’affare, emblematicamente sintetizzato nella celebre telefonata tra gli imprenditori Francesco De Vito Piscicelli e suo cognato Gagliardi e confermato dalle indagini sulle frodi e l’utilizzo di materiali non a norma. La tragedia sociale, che si consuma ogni giorno tra nuclei famigliari sparsi nel territorio, mancati collegamenti, perdita dei riferimenti. E che si traduce, in concreto, nell’assenza per i più giovani di luoghi di incontro, al di là dei pub e delle birrerie improvvisate nei prefabbricati, dove la gran parte di loro trascorre i sabato sera. Oppure nell’aumento esponenziale del ricorso a psicofarmaci da parte della popolazione (+35%).
Come da subito aveva avvertito Pier Luigi Cervellati, i nuovi insediamenti si stanno dimostrando un disastro sociale ancor prima che economico. Domenica 5 aprile, in occasione del raduno degli storici dell’arte (all’Aquila e per l’Aquila), Salvatore Settis ha ricordato le parole pronunciate alla Camera il 7 agosto 2010 dal deputato Giorgio Stracquadanio, eletto in Lombardia nel Popolo delle Libertà, che dichiarò testualmente: “L’Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile”. Niente di più falso: L’Aquila era una città vivace, dalla lunga tradizione civile e culturalmente assai ricca. Nel centro della città, quando era viva, si radunavano quegli stessi giovani che oggi affollano le birrerie della immediata periferia, sempre che le loro famiglie non abbiano deciso di lasciare (nell’ultimo anno, le scuole hanno visto un calo degli iscritti pari a circa 8.000 unità).
Come ha sostenuto Tomaso Montanari, “oggi l’Aquila è suo malgrado divenuta il simbolo della perdita di tutti gli elementi centrali della tradizione culturale italiana: il rapporto strettissimo tra città e cittadini; il rapporto tra monumenti e vita politica; il rapporto tra arte e spazio pubblico”. Per questo, anche per questo, senza rimettere mano all’Aquila, senza tentare di ricostruirne il tessuto sociale a partire da quello urbano, non si potrà immaginare di invertire la rotta pericolosa del nostro degrado civile.
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