Lo stile di vita dei migranti residenti nel nostro paese ci ricorda a volte quello degli italiani di cinquant’anni fa. L’impressione non è priva di fondamento: infatti, comparando alcuni indicatori (demografici, sociali, economici) che in passato hanno caratterizzato le condizioni di vita delle famiglie italiane e che oggi qualificano le famiglie immigrate, emerge chiaramente come i due gruppi condividano lo stesso spazio (sono compresenti), ma non lo stesso tempo sociale. Le conseguenze di questo sfasamento temporale sono tangibili per i migranti che si trovano a vivere condizioni, vincoli e opportunità tanto diverse dagli autoctoni, con il forte rischio di marginalizzazione (Tusini, 2015). Per rilevare la distanza temporale che separa migranti e autoctoni, sono stati presi in esame indicatori di varia natura.
Dal punto di vista demografico è noto che i migranti siano più giovani dei nativi: l’età media degli autoctoni è intorno ai 45 anni, mentre quella dei migranti è sui 32 (Censimento 2011). La popolazione italiana aveva quella stessa età media più di 60 anni fa, al Censimento del 1951. Relativamente alla struttura della popolazione, per citare solo un aspetto, al Censimento 2011 la quota dei bambini sotto i cinque anni rappresenta l’8,4% dei migranti e solo il 4,3% degli autoctoni; storicamente è necessario risalire al 1971 per trovare un valore simile nella popolazione italiana (8,3% bambini sotto i 5 anni). Similmente, bisogna risalire al 1972 per registrare tra le italiane (2,35) un valore simile al tasso di fecondità totale delle straniere del 2012: 2,37 figli per donna.
Dal punto di vista lavorativo, come è noto, è in atto una vera e propria etnicizzazione di alcuni settori. Gli stranieri in genere svolgono professioni precarie, pesanti, pericolose, poco pagate, penalizzate socialmente, che presentano molte delle caratteristiche tipiche della forza lavoro marginale e manuale (Ambrosini, 1999). Si tratta di mestieri che gli italiani non vogliono più fare, ma che fino a qualche decennio fa venivano svolti abitualmente. Per quanto riguarda il numero dei percettori di reddito in famiglia, il 63,4% delle famiglie straniere è monoreddito, contro il 45,5% delle famiglie italiane. L’indagine I bilanci delle famiglie italiane della Banca d’Italia riferisce come nel 1968 il 56% delle famiglie italiane fosse monoreddito. Dato che questo valore è diminuito nel tempo (nel 1972 era al 49% e nel 1978 già al 39,5%), è presumibile che per trovare una quota simile a quella delle famiglie straniere odierne (cioè 63,4%) sia necessario arretrare ulteriormente, forse oltre gli anni Cinquanta.
[Disegno di Dario Fo, 2010]
Un indicatore particolarmente significativo delle condizioni di vita della popolazione è la quota di reddito destinata ai consumi. Notoriamente, in base alla legge di Engel (1895), più elevata è la povertà tanto maggiore è la quota del reddito destinata all’acquisto di beni di prima necessità, in particolare generi alimentari. Nel nostro Paese la ripartizione del reddito destinato ai consumi si è fortemente ridotta nel tempo: nel 1861 quasi 2/3 del reddito medio erano destinati ai consumi alimentari; nel 1953 poco più della metà, per arrivare a meno di un quinto (19,4%) nel 2012 (dati Istat). Per quanto riguarda la popolazione migrante, i dati disponibili risalgono a qualche anno fa e sono relativi a campioni limitati. Nel 2006 una ricerca del Censis-E-st@t Gruppo Delta basata su 800 interviste a migranti stimava la spesa per vitto e alloggio intorno al 47% del reddito disponibile. Uno studio della Fondazione Ismu del 2007 relativo alla sola Lombardia riportava una quota di reddito intorno al 40% destinata ad alimentari e abbigliamento. Nonostante si tratti di dati provenienti da indagini campionarie a numerosità ridotta, che oltretutto mescolano spese destinate a beni differenti (vitto e alloggio; vitto e abbigliamento), pare comunque evidente come le quote di reddito riportate siano molto lontane da quelle destinate ad alimenti dalla famiglia italiana media odierna e molto più vicine a quelle proprie degli anni Settanta. Un altro fattore interessante riguarda la disponibilità di beni durevoli quali frigorifero, lavatrice televisore, automobile (Istat, 2011). Il confronto tra famiglie autoctone e migranti evidenzia una differenza di 20 punti percentuali relativamente al possesso della lavatrice (97,7% delle famiglie italiane contro 77,9% delle famiglie di soli stranieri); di 12 sul possesso del televisore (97,3% contro 85,7%); di 14 sul frigorifero (99,5% contro 85,6%); di 27 sull’automobile (79% contro 52,3%).
Trasportando questi dati indietro nel tempo risulta che la quota odierna di famiglie straniere che possiede una lavatrice corrisponde all’incirca a quella delle famiglie italiane del 1975; la quota che possiede un televisore, un frigorifero o un’automobile è simile a quella italiana tra il 1971 e 1972.
Tutti questi elementi (e altri qui non esaminati: l’incidenza di famiglie numerose, le condizioni abitative ecc.) ci spingono a concludere che è come se i migranti “abitassero” in un tempo sociale proprio rispetto agli autoctoni. Condividono sì gli stessi luoghi ma, essi paiono relegati in un apartheid temporale che configura un mondo sociale “a parte”, entro il quale si vive secondo i parametri socio-economici di un’altra epoca. Le loro condizioni di vita sono molto diverse dai loro coesistenti autoctoni, e del tutto simili a quelle che mediamente contrassegnavano la popolazione italiana durante la fase di modernizzazione.
[Questo articolo è stato pubblicato su neodemos.info il 15 marzo 2016]
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