Che cos’è il sogno americano? Lo storico premio Pulitzer James Truslow Adams ha scritto, in The Epic of America (1931):
«è il sogno di una terra in cui la vita dovrebbe essere migliore, più prospera e più ricca per tutti, con opportunità per ciascuno secondo le proprie capacità o i risultati raggiunti. È un sogno difficile da interpretare adeguatamente per le classi dominanti europee... Non è un soltanto un sogno di auto nuove e salari elevati, ma un sogno di ordine sociale, nel quale ogni uomo e ogni donna devono essere capaci di raggiungere la massima realizzazione di cui sono, per natura, capaci di raggiungere; e devono essere riconosciuti dagli altri per quello che loro sono, a prescindere dalle circostanze fortuite legate alla nascita o alla posizione».
Thomas Jefferson, sempre in polemica con l’Europa classista, aveva già fissato l’obiettivo della nuova Repubblica che gli americani stavano costruendo: opporre all’aristocrazia europea dei privilegi e della ricchezza un’aristocrazia americana delle virtù e dei talenti. Una Repubblica guidata da una siffatta aristocrazia non avrebbe potuto che accrescere le proprie potenzialità e disporsi a essere lo spazio di vita migliore per quel pursuit of happiness che, in ultima istanza, è il vero fondamento e lo scopo del sogno americano.
Ma come calibrare il primato dell’American dream in una società aliena o allergica alla lotta di classe che, a partire dalla metà dell’Ottocento, infiammava invece il vecchio continente come un enorme bosco di alberi secchi? Semplice: concependo il sogno americano in un’ottica espansiva e includente. Lo suggeriva anzitutto la filosofia: quell’illuminismo schietto a cui i padri fondatori erano legati. Lo consigliava anche la geografia: in una terra così immensa per una popolazione così esigua, non c’era motivo di pensare che non ci sarebbe stato spazio e fortuna per tutti. Ma lo ispirava anche la lontananza da quell’Europa bigia e litigiosa, organizzata in società dove il destino dei singoli era strettamente legato alla discendenza familiare.
Così l’American dream divenne l’essenza dell’ethos nazionale americano: perché era un sogno che univa senza dividere; un sogno da fare insieme, eppure ognuno a casa propria; un sogno cominciato con tredici colonie, ma che non poteva avere fine perché i suoi principi erano truths to be self-evident in ogni luogo e in ogni tempo. E da subito, infatti, i partiti maggiori e i leader americani più importanti cominciarono a modellare la propria identità sulla base di chi meglio sapeva interpretare la capacità di espansione e il potere di inclusione dell’American dream.
Se è vero che la Guerra civile scoppiò prevalentemente per ragioni economiche, essa fu in realtà così dirompente perché si nutriva di una stringente contraddizione: negare la partecipazione attiva all’American dream a esseri umani di diversa pigmentazione di quella della maggioranza degli americani. Una contraddizione che andava sradicata almeno nominalmente, con esplicito richiamo nella legge fondamentale dell’Unione. Consapevolezza che lentamente maturò in quel secondo padre della patria che, dopo George Washington, fu Abramo Lincoln.
Da Lincoln in poi, i soggetti del bipartitismo statunitense si sono definiti in relazione al sogno americano. Nel Partito democratico, si è assistito a una divisione interna tra gli ammiratori del sogno e i loro imitatori (la suggestione kierkegaardiana è qui voluta, con il conseguente parallelo tra sogno americano e cristianesimo). Da Woodrow Wilson a John Kennedy, una lunga schiera di democratici ammiratori del sogno hanno centrato su di esso il loro racconto. Da Lyndon Johnson a Bill Clinton, un altrettanto importante insieme di imitatori, interpreti e testimoni viventi del sogno (uomini venuti dal nulla e arrivati al 1600 di Pennsylvania Avenue) hanno rafforzato, con la loro esemplare biografia, il legame della sinistra americana con il sogno.
Sia gli imitatori sia gli ammiratori dell’American dream non sono mai venuti meno – e ciò li unisce indissolubilmente – alla versione di un sogno che fosse espansiva e includente. In fondo, anche il lungo dibattito post Seconda guerra mondiale, che portò alle leggi del presidente Johnson contro l’apartheid verso i neri d’America, era un dibattito centrato sull’American dream. In particolare, i leader dei diritti civili si dividevano tra chi (Martin Luther King su tutti) concepiva la battaglia per i diritti civili come l’ennesima tappa dell’espansione includente dell’American dream a ogni cittadino e chi proponeva una versione redistributiva ed escludente del sogno.
Alla fine, com’è noto, l’ebbe vinta ancora una volta la versione originaria, quella che allarga il campo, contro quella che s’incarica di creare divisione e conflitto. Il più bel discorso politico di tutti i tempi, l’orazione di King al Lincoln Memorial di Washington, era proprio il racconto di una visione espansiva e accogliente del sogno americano («I have a dream that one day in Alabama… little black boys and black girls will he able to join hands with little white boys and white girls as sisters and brothers»).
Oggi che nuove minoranze pesano felicemente e finalmente nella politica statunitense, e i loro rappresentanti al Congresso cominciano a farsi sentire, il punto di complessità della questione democratica che pongono è ancora una volta sull’interpretazione dell’American dream. Martin Luther King, a differenza di altri leader neri, non ha mai detto che per dare ai neri (includendoli nel sogno) bisognava togliere ai bianchi (riducendo il loro spazio nel sogno). Oggi, viceversa, molti dei leader delle minoranze che vivacizzano la nuova sinistra americana propongono un’interpretazione redistributiva ed escludente del sogno.
C’è di buono che questi leader, a parte qualche sciocchezza detta su Israele, ripudiano la violenza e si sentono appassionatamente ingaggiati nelle forme istituzionali e nei modi costituzionali dell’Unione. Tuttavia le loro battaglie sono per lo più all’insegna di una contestazione feroce dell’occupazione degli spazi politici negati dai wasp e dalle piccole minoranze ai wasp alleate. Se le loro modalità di lotta non somigliano a quelle violente degli anni Sessanta, la loro retorica non somiglia purtroppo a quella di King.
È vero: l’incremento del gap tra chi ha di più e chi ha di meno negli States è costantemente cresciuto negli ultimi anni. In particolare sotto Barack Obama, l’uscita dalla grande crisi economica è stata accompagnata da un forte indebitamento generale, con il paradossale (per un presidente di sinistra…) ulteriore aumento del gap di cui sopra. Questo problema esiste, non solo in America, ed è enorme. Ma le minoranze che animano a sinistra la politica americana sono poste di fronte a un tema che, prima di essere sociale ed economico, è filosofico e culturale.
Limitarsi, infatti, a una critica economica e sociale delle degenerazioni del sogno rende inefficace la critica in quegli Stati, in particolare del Midwest, dove la globalizzazione e la grande crisi economica hanno fatto danni non tra le minoranze emergenti, ma nella maggioranza bianca del Paese. Le policies economico-sociali della nuova sinistra americana non possono fare breccia in quegli Stati. Se si vuole davvero che la critica produca una proposta di governo nazionale capace di essere competitiva alle prossime presidenziali, l’esercizio intellettuale e politico va impegnato anche sul fronte dell’interpretazione filosofica e culturale dell’American dream a cui ci si vuole associare.
L’American dream funziona quando non nega ad alcuno di potercela fare: un americano non può usare l’America dream contro un altro americano. Quando è successo, c’è stata la guerra tra gli americani o tensioni sociali che hanno mietuto morti e feriti. Il sogno americano o è espansivo e includente o non è il sogno americano. È un punto concettuale dirimente, con il quale la nuova sinistra americana è chiamata, che le piaccia o meno, a fare i conti.
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