L’ignoranza dei sostenitori di Israele nel respingere ogni confronto tra Israele e altri casi di colonialismo di insediamento (o settler colonialism) è seconda solo a quella della comprensione di questo concetto da parte di chi supporta la Palestina. Una vittima di questo dibattito è la rigorosa ricerca accademica sul conflitto israelo-palestinese. Tragicamente, questo caos concettuale ostacola anche la nostra capacità di immaginare una conclusione a questo conflitto.

“I miei lettori hanno un’idea generale della storia della colonizzazione in altri Paesi. Suggerisco loro di considerare tutti i precedenti con cui hanno familiarità e di vedere se c’è un solo caso di colonizzazione condotta con il consenso della popolazione autoctona. Un tale precedente non esiste”.

Questa citazione proviene da una delle prime analisi del sionismo come movimento coloniale di insediamento, scritta nientemeno che da Ze’ev Jabotinsky, l’intellettuale e padre politico della destra sionista. Questo estratto da un suo saggio del 1923, Sul muro di ferro, coglieva il problema fondamentale che il sionismo affrontava come movimento politico. Jabotinsky mise da parte le sue convinzioni sioniste, fondate sulla storia e sulle tradizioni religiose, e giunse alla conclusione logica che, per la maggioranza della popolazione araba in Palestina, i sionisti sembravano invasori.

Il termine settler colonialism viene troppo spesso visto, a torto, come una forma di colonialismo, suggerendo che Israele dovrebbe seguire la traiettoria delle imprese coloniali del passato: non è così. Un’analisi del colonialismo di insediamento non può determinare chi sia il legittimo proprietario della terra e/o quale sia la migliore soluzione per questo conflitto. Non può neanche negare i legami storici e la presenza ebraica nella Terra di Israele. Tuttavia, quando si parla di colonialismo di insediamento, diventa innegabile affermare che il sionismo sia nato al di fuori della Terra di Israele e che questa sia stata considerata patrimonio ebraico in un momento in cui più del 90% dei suoi residenti non erano ebrei.

Il colonialismo e il colonialismo di insediamento dovrebbero essere considerati come due modelli ideali situati agli opposti dello spettro dell’espansione moderna europea

Come Lorenzo Veracini ha ben mostrato nei suoi lavori fondamentali, colonialismo e colonialismo di insediamento dovrebbero essere considerati come due modelli ideali situati agli opposti dello spettro dell’espansione moderna europea. L’argomentazione che qui vorrei svolgere è che il sionismo è molto più vicino all’estremità di questo spettro rappresentata dal settler colonialism che a quella rappresentata dal colonialismo tout court.

Il colonialismo coinvolge missionari, soldati, amministratori, uomini d’affari e talvolta anche coloni che estendono la sovranità imperiale in altri Paesi. D’altro canto, i coloni di insediamento possono essere originariamente emissari di un impero, ma poi sviluppano rivendicazioni di sovranità uniche, separate da un centro imperiale. Come spesso viene fatto notare, il sionismo non ha mai avuto una metropoli imperiale e questo effettivamente lo allontana dal modello coloniale e suggerisce che invece che sia compatibile con il colonialismo di insediamento.

Un’altra differenza chiave tra i movimenti coloniali e quelli di settler colonialism sta nelle relazioni che instaurano con i popoli incontrati nei territori dove arrivano. Lo studioso australiano Patrick Wolfe, scomparso qualche anno fa, ha riassunto le differenze tra le relazioni coloniali e quelle di colonizzazione di insediamento in maniera cruda, ma succinta. Mentre il colonialismo si basa sullo sfruttamento e sul controllo delle popolazioni indigene, il colonialismo di insediamento si basa sulla loro “eliminazione”.

I colonizzatori sfruttavano gli indigeni per ottenere risorse naturali e umane e indirizzarle verso la metropoli: un esempio classico è il dominio britannico sull’India, dove il lavoro e la fatica degli indiani arricchivano la Compagnia delle Indie e le casse dello Stato britannico. Lo sfruttamento richiedeva una sottomissione violenta, ma le potenze coloniali non avevano interesse a portare gli indigeni sull’orlo dell’annientamento: se non c’era nessuno da sfruttare, qual era lo scopo di avere un impero coloniale? Al contrario, i colonizzatori di insediamento desideravano sostituire la popolazione indigena e spesso le infliggevano violenze che ne riducevano drasticamente il numero e il controllo dei terreni. La “logica dell’eliminazione degli indigeni” di Wolfe al centro dei progetti colonizzatori spiega gli atti di genocidio e pulizia etnica che si sono verificati in molti casi di colonizzazione di insediamento.

Lo sfruttamento richiedeva una sottomissione violenta, ma le potenze coloniali non avevano interesse a portare gli indigeni sull’orlo dell’annientamento

L’eliminazione degli indigeni si manifestava anche in modalità che Wolfe collocava, generalizzando, nella categoria dell’“assimilazione”: l’assorbimento politico, culturale e persino biologico della popolazione indigena nel corpo politico dei coloni. L’assimilazione indigena è un mezzo efficace per la consolidazione del settler colonialism, poiché attenua la resistenza degli indigeni al progetto colonizzatore. Quando coloni e indigeni si vedono reciprocamente come compatrioti, questi ultimi essenzialmente rinunciano alla loro pretesa di esclusiva indigenità.

Sionismi dimenticati. Le eccezionalità del sionismo non modificano il fatto che, quando gli ebrei europei decisero che la soluzione al loro problema andava trovata in un’altra parte del mondo, affrontarono tra gli altri la stessa, fondamentale questione di tutti gli altri progetti coloniali di insediamento: la terra che desideravano non era disabitata. Come tutti gli altri progetti colonizzatori, il sionismo scelse costantemente politiche e adottò visioni volte a contenere il “problema degli indigeni”.

Un’aspirazione alla superiorità demografica ebraica, attraverso l’emigrazione “volontaria” degli arabi palestinesi o con la forza, ha accompagnato il sionismo nel corso degli anni e persiste ancora oggi. Tuttavia, un’analisi del colonialismo di insediamento può spiegare una dimenticata spinta integrativa sionista e una tendenza predominante a immaginare regimi democratici inclusivi. Una soluzione che prevede uno solo Stato democratico, se si vuole.

Nel suo libro fondamentale del 2018, Beyond the Nation-State, Dimitry Shumsky ha dimostrato che fino alla fine degli anni Venti la corrente principale del sionismo formulò una successione di disposizioni binazionali e federative, come un’autonomia ebraica sotto l’Impero Ottomano, uno Stato binazionale, uno Stato ebraico federato con uno Stato arabo più grande e uno Stato ebraico che facesse parte del Commonwealth britannico. Tutti questi percorsi avrebbero comportato la cancellazione di un’entità indigena distinta e ostile, garantendo l’uguaglianza politica tra arabi ed ebrei.

La ragione per cui i coloni sionisti si orientarono verso visioni integrative era correlata al fatto che la popolazione indigena che incontrarono era relativamente “forte”

La ragione per cui i coloni sionisti si orientarono verso visioni integrative o inclusive era correlata al fatto che, rispetto ad altri casi di colonialismo di insediamento, la popolazione indigena che incontrarono era relativamente “forte”. Fino alla Dichiarazione Balfour del 1917, quando i britannici adottarono il sionismo, i sionisti non avrebbero potuto immaginare di sconfiggere militarmente i palestinesi. Dovevano invece sostenere quadri politici che riuscissero potenzialmente a interessare gli arabi palestinesi. Il binazionalismo, sebbene più accettabile della pulizia etnica, può comunque essere attribuito a un impulso, secondo le parole di Wolfe, di “eliminazione degli indigeni” presente in tutte le società coloniali di insediamento. Anche se nel 2023 è difficile da immaginare, l’uguaglianza ebraico-araba faceva parte della logica politica sionista tanto quanto le fantasie sull’omogeneità etnica ebraica.

Il progetto israeliano. La nascita di Israele nel 1948, attraverso il distacco formale dall’Impero britannico e lo spostamento di circa 700.000 palestinesi, rappresenta un momento cardine per il colonialismo di insediamento. Una volta che i sionisti hanno creato Israele come uno Stato ebraico quasi monoetnico, il binazionalismo è praticamente scomparso dall’agenda sionista. Tuttavia, la storia sionista ha continuato a riflettere il colonialismo di insediamento assimilativo, ma solo nei confronti dei 156.000 arabi palestinesi che sono rimasti all’interno dei confini dell’Israele nascente e sono diventati i cittadini arabi dello Stato ebraico.

Contrariamente alla propaganda israeliana, gli arabi palestinesi non hanno ottenuto una piena uguaglianza con gli ebrei nel momento stesso in cui hanno ottenuto la cittadinanza. Nel 1948, Israele ha promulgato la legge marziale, il “governo militare”, per la maggior parte degli arabi palestinesi, che ha annullato quasi tutte le protezioni garantite dalla cittadinanza israeliana. Tuttavia, la cittadinanza ha fornito una cornice legale affinché arabi ed ebrei sionisti potessero aspirare all’uguaglianza civica. I cittadini arabi palestinesi riconoscevano lo Stato sionista e conducevano lotte non violente per migliorare la loro situazione. Con il tempo, importanti sionisti si lamentarono che il governo militare era inutile e dannoso per l’auspicata integrazione dei cittadini arabi. Da metà degli anni Cinquanta, i governi israeliani hanno gradualmente alleviato le restrizioni del governo militare e l’hanno poi annullato nel dicembre del 1966. L’integrazione degli arabi palestinesi nella società israeliana li ha costantemente lasciati in uno status subordinato, di popolazione guardata con sospetto. Tuttavia, nel tempo, gli arabi in Israele hanno sviluppato un senso di “israelianità”. Ebbene, questa israelianità è un indicatore del colonialismo di insediamento.

L’integrazione degli arabi palestinesi nella società israeliana li ha costantemente lasciati in uno status subordinato, di popolazione guardata con sospetto

È importante sottolineare che se Israele è effettivamente uno Stato coloniale di insediamento, allora è legittimo o illegittimo tanto quanto alcuni degli Stati da cui provengono i suoi critici più accesi. Mentre gli attivisti anti Israele [in America e in Canada, N.d.R.] possono sostenere politiche di riconciliazione e compensazione con le rispettive comunità indigene, queste alla fine si traducono nell’assimilazione dei popoli indigeni in un mosaico multiculturale sotto lo Stato colonizzatore. Ciò rappresenta il colonialismo di insediamento nella sua forma più elevata, non la sua negazione. Eppure, anche se tali gesti possono sembrare vuoti e cinici, dobbiamo chiederci perché sionisti e palestinesi non siano mai entrati in una fase di riconciliazione.

1967: la svolta coloniale. La sorte di Israele avrebbe potuto essere quella di Paesi come gli Stati Uniti, il Canada e l’Australia, che hanno accolto all’interno della società colonizzatrice la minoranza indigena rimasta. Tuttavia, a seguito della guerra del giugno 1967, Israele ha improvvisamente controllato un territorio più ampio con una popolazione palestinese molto più numerosa. Durante il primo ciclo elettorale post-bellico, gli elettori israeliani hanno dovuto scegliere tra due programmi: la destra ha chiesto l’annessione e la costruzione di insediamenti nei Territori occupati appena acquisiti e ha proposto alla popolazione palestinese un percorso per ottenere la cittadinanza israeliana. Anche il Partito laburista ha sostenuto gli insediamenti, ma non ha spinto per un’annessione formale e ha rigettato una via palestinese alla cittadinanza. L’elettorato israeliano ha assegnato ai laburisti 56 seggi nella Knesset contro i 26 della destra.

Mantenendo il controllo sui Territori, senza concedere la cittadinanza ai loro abitanti e impiantando coloni ebrei-israeliani privilegiati, l’occupazione israeliana ha iniziato a somigliare a casi passati di controllo imperiale sulle dipendenze coloniali: un regime basato sulla supremazia etnica e sullo sfruttamento del lavoro dei subalterni, un regime più coloniale che di insediamento coloniale.

Sia i governi israeliani precedenti che quelli posteriori al 1967 hanno incoraggiato la “giudaizzazione” (yihud) del territorio attraverso gli insediamenti. La differenza è che – diversamente dagli abitanti dei kibbutz che si stabilirono sulle terre palestinesi negli anni Cinquanta, che erano impegnati, almeno in linea di principio, a porre fine al governo militare e a onorare la promessa della cittadinanza israeliana per gli arabi – i coloni nei Territori occupati non sono mai stati particolarmente preoccupati dallo status politico inferiore dei loro vicini palestinesi. Pertanto, si può dire che i coloni sionisti dopo il 1967 fossero più simili ai pieds-noirs algerini che alle popolazioni europee di Australasia e America. La loro è più una “colonizzazione con insediamento” che un “colonialismo di insediamento”.

Nel 1987, vent’anni dopo l’inizio del controllo di Israele sui Territori, è scoppiata una rivolta popolare anticoloniale sotto forma della prima Intifada e, come altre insurrezioni simili, ha abbassato la redditività del progetto coloniale.

Il processo di Oslo, che è seguito alla prima Intifada, è stato un tentativo israeliano di riportare il sionismo su una traiettoria più vicina al colonialismo di insediamento e di abbandonare la relazione coloniale con i palestinesi. Infatti, una delle motivazioni esplicite della sinistra sionista per andare avanti con il processo di Oslo dimostrava la presenza di una logica di eliminazione degli indigeni: non attraverso la pulizia etnica, non attraverso l’assimilazione, ma ridefinendo i confini in modo tale da collocare i palestinesi al di fuori del controllo e della responsabilità israeliani.

Il fallimento degli accordi di Oslo nel 2000 ha significato la ripresa della dominazione coloniale, questa volta con livelli maggiormente severi di oppressione

Il fallimento degli accordi di Oslo nel 2000 ha significato la ripresa della dominazione coloniale, questa volta con livelli maggiormente severi di oppressione israeliana e una resistenza militante più brutale. Nel 2005, Israele ha smantellato le colonie nella Striscia di Gaza ma ne ha mantenuto il controllo sostanziale, mentre in Cisgiordania è riuscito a soffocare la resistenza palestinese con l’aiuto dell’Autorità palestinese. Per due decenni, Israele è riuscito con successo a mantenere i palestinesi in una matrice coloniale contenendo la resistenza a livelli gestibili. Ma nulla dura per sempre.

Il colonialismo di insediamento e la guerra del 7 ottobre. La strage perpetrata da Hamas il 7 ottobre nelle città e nei villaggi israeliani attorno alla Striscia di Gaza ha reso manifesto il loro obiettivo finale: allontanare gli israeliani da tutta la Palestina. Un’interpretazione più sfumata suggerisce che l’attacco fosse volto a contrastare un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, che avrebbe stretto ancora di più i palestinesi nella morsa coloniale. L’attacco potrebbe spingere gli israeliani a scegliere una strada diversa da quella coloniale: tuttavia adesso un tipo di visione settler-coloniale, quella sul genere accordi di Oslo, si scontra con un altro genere di visione settler-coloniale, che vorrebbe una pulizia etnica palestinese dalla Striscia di Gaza e dalla Cisgiordania. Le dichiarazioni quotidiane dei leader israeliani e l’entità delle morti e delle distruzioni puntano in quella direzione.

Eppure, le strutture coloniali di insediamento del sionismo danno anche adito a un moderato ottimismo. I cittadini arabi palestinesi di Israele hanno mostrato solidarietà nei confronti dello Stato israeliano e dei suoi cittadini ebrei. Contrariamente all’accusa razzista della destra, che li assimila a una quinta colonna, i cittadini palestinesi non si sono identificati con i combattenti di Hamas. Nei mesi successivi, mentre studenti indignati nelle università Ivy League urlavano “from the river to the sea”, i palestinesi arabi in Israele sono rimasti fedeli a una soluzione a due Stati, hanno condannato Hamas e hanno stretto i denti di fronte alle angoscianti immagini che provenivano dalla Striscia di Gaza. Ebrei e una parte del popolo palestinese hanno dimostrato di poter superare la storia che ha causato questa brutale guerra. Certamente ebrei e palestinesi possono vivere pacificamente l’uno accanto all’altro in due Stati.

 

[Questo intervento prosegue la discussione avviata dall'articolo di Anna Momigliano il 23 ottobre scorso. La traduzione dall'inglese è di Francesco Locane.]