Ormai ogni elezione viene etichettata come “storica”. Non si tratta solo di sensazionalismo, ma stiamo effettivamente assistendo a un crescente numero di eventi inediti che segnalano l’affanno delle democrazie liberali. Gli ultimi avvenimenti ci pongono di fronte a una sfida profonda e trasversale all’Occidente democratico.
Negli Stati Uniti, un filo rosso collega le presidenziali del 2020 e quelle di novembre ed è il progressivo scivolamento del Partito repubblicano fuori dai paletti dello Stato liberale per seguire la leadership di Donald Trump. La svolta fu la richiesta dell’ex presidente al suo vice di allora, Mike Pence, di interferire con i risultati delle elezioni e, pochi giorni dopo, l’assalto a Capitol Hill. Oggi, questa deriva è testimoniata dal famigerato Project 2025, un piano per “istituzionalizzare il trumpismo”, secondo Kevin Roberts, il presidente del think tank conservatore – Heritage Foundation – che lo ha prodotto. In circa 1.000 pagine si avanzano proposte per cambiare l’assetto dello Stato e implementare politiche restrittive sul versante dei diritti civili, tanto che molti hanno visto in questo piano l’anticamera dell’autoritarismo. Sempre Roberts, a luglio, ha paragonato le prossime elezioni a una “seconda rivoluzione americana” che, ha proseguito, “rimarrà senza spargimenti di sangue se la sinistra lo permetterà”. Una retorica che fa capire quanto negli Stati Uniti alcuni dei fondamenti dello Stato liberale non siano più presupposti intoccabili, ma siano ormai entrati nell’arena politica e, dunque, messi in discussione.
Sull’altra sponda dell’Atlantico, il secondo turno delle elezioni parlamentari francesi ha richiesto la formazione del front républicain, indispensabile per evitare la vittoria del Rassemblement National. Già il nome del cartello elettorale sottolinea come il partito di Marine Le Pen sia considerato incompatibile con il regime repubblicano. E se è vero che il fronte è una costante della V Repubblica, è in ogni caso la prima volta che il Rassemblement arriva in testa al primo turno delle legislative, con un’impressionante distribuzione geografica che ha salvato solo “le grandi aree urbane parigina e marsigliese e alcune altre città medio-grandi”. Se consideriamo i sistemi elettorali come degli elastici, si può tranquillamente affermare che quello francese abbia dato fondo a tutta la sua elasticità, come testimoniato dall’impasse dopo il voto. Anche perché il fronte aveva già dato segnali di instabilità su entrambi i fianchi: a destra, con il sostegno esplicito a Le Pen di una parte dei gollisti; a sinistra, con l’incompatibilità di fatto tra il centro macronista e La France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon.
Varcando il Reno e proseguendo verso Est, arriviamo in Turingia, ufficialmente entrata nella storia per aver registrato la prima vittoria dell’estrema destra dai tempi del nazismo. Non a caso, già dalle primissime proiezioni, i vertici di Alternative für Deutschland (AfD) si sono affrettati a lanciare messaggi inequivocabili sulle loro ambizioni ormai di portata nazionale. Il Brandmauer – la versione tedesca del fronte repubblicano: letteralmente, muro tagliafuoco – per ora sembra reggere, ma è evidente che qualora la corsa dell’AfD prosegua, spinta dai consensi sempre maggiori nei Länder dell’ex Ddr, le altre forze politiche farebbero sempre più fatica a tenerli fuori. “Secondo la Fondazione Rosa Luxemburg – ha riportato Mara Gergolet sul “Corriere della Sera” – tra il 2019 e il 2023, a livello locale 120 proposte sono state votate dall’AfD e dalla Cdu (o altri partiti) insieme”.
Ogni contesto ha le sue specificità, ma il trend è chiaro: lo Stato liberale non è più il perimetro condiviso all’interno del quale si svolge la competizione politica. È con questa consapevolezza che il presidente Mattarella, nel suo intervento alla Settimana sociale, ha lanciato un monito essenziale: “La democrazia non è mai conquistata per sempre”.
Una delle forme in cui l’autoritarismo avanza è lo smantellamento graduale dello Stato di diritto e delle libertà, mantenendo alcune strutture di facciata tipiche della democrazia, come le elezioni che, nel senso comune, di essa sono il simbolo
La crisi della democrazia liberale si riflette nella messa in discussione del nesso inscindibile tra Stato di diritto e Stato democratico. Riprendendo Norberto Bobbio, sappiamo che una democrazia è liberale oppure non è: “Lo Stato liberale è il presupposto non solo storico ma giuridico dello Stato democratico nel senso che occorrono certe libertà per l’esercizio corretto del potere democratico” (N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, 2014, p. 7). Una delle forme in cui l’autoritarismo avanza è lo smantellamento graduale dello Stato di diritto e delle libertà, mantenendo alcune strutture di facciata tipiche della democrazia, come le elezioni che, nel senso comune, di essa sono il simbolo. Non stupisce, allora, che, secondo il Democracy Report 2024 del V-Dem Institute, la forma di governo più diffusa è proprio quella delle autocrazie elettorali, in cui vivono tre miliardi e mezzo di persone, il 44% della popolazione mondiale. Non solo; il rapporto certifica uno strutturale e preoccupante arretramento delle democrazie liberali: nel 2023, il livello di democrazia nel mondo è tornato ai livelli del 1985, dunque addirittura prima della straordinaria ondata di democratizzazione che seguì la caduta del Muro di Berlino. È da circa quindici anni che la popolazione mondiale che vive in autocrazie è maggiore di quella che vive in regimi di democrazia liberale: se nel 2003 era il 48%, oggi siamo arrivati al 71%! Le autocrazie elettorali rischiano di essere l’approdo di quella regressione dello Stato di diritto che Viktor Orbán aveva apertamente rivendicato già nel 2014: “il nuovo Stato che stiamo costruendo in Ungheria è uno Stato illiberale, uno Stato non liberale”.
Così, di cordoni sanitari sentiamo – e sentiremo – sempre più parlare. Ma l’idea di mettere da parte le differenze ideologiche, spesso anche molto profonde, per contrastare chi mette in discussione le fondamenta dello Stato di diritto è un’operazione non priva di rischi. Innanzitutto, soluzioni di extrema ratio hanno un’efficacia direttamente proporzionale alla credibilità della minaccia di deriva autoritaria nella percezione dell’opinione pubblica. In assenza di una tale percezione, l’allarme democratico può ritorcersi contro chi lo ha lanciato, lasciando alle forze politiche che si sono unite solo i “costi” di aver messo da parte le proprie differenze. Un secondo rischio è rappresentato da quanto potrebbe verificarsi in Francia. L’elevata litigiosità di un fronte repubblicano troppo eterogeneo può pregiudicare, anche dopo la formazione di un governo, l’efficacia dell'azione dell'esecutivo, aumentando, così, l’insoddisfazione dei cittadini. Si potrebbe innescare un circolo vizioso che finirebbe per aggravare le cause che hanno contribuito alla crescita dei consensi di coloro contro i quali si era formato il cordone sanitario. La terza motivazione, sottesa a entrambe le precedenti, è il fatto che la democrazia si nutre del pluralismo e di un sano conflitto politico. Limitarli per creare fronti democratici deve restare un’eccezione, non può diventare la regola. In caso contrario si rischia un’eterogenesi dei fini: tentando di salvare la democrazia, si finisce per soffocarla. Ricordando un vecchio detto: “l’operazione è perfettamente riuscita, ma il paziente è morto!”. Anche perché sono sotto gli occhi di tutti gli effetti negativi sulle nostre democrazie del Tina – There Is No Alternative – di thatcheriana memoria.
L’unica cosa a cui non ci sono davvero alternative è che una democrazia non si può salvare se, in ultima istanza, non sono i cittadini stessi a volerlo
A ben vedere, l’unica cosa a cui non ci sono davvero alternative è che una democrazia non si può salvare se, in ultima istanza, non sono i cittadini stessi a volerlo. Non esisteranno mai meccanismi giuridici, costituzionali o politici che possano portare a zero il rischio di regressione democratica. Non potrebbe essere altrimenti: non può esserci democrazia senza responsabilità. Torna in mente, qui, il monito di Romano Guardini che, nel ricordare i ragazzi della Rosa Bianca, parla di un “totalitarismo che viene dall’alto, ma anche un totalitarismo che viene dal di dentro” (R. Guardini, La Rosa Bianca, Morcelliana, p. 56). Nelle sue riflessioni, Guardini avverte che la tentazione totalitaria si afferma anche perché offre all’uomo una liberazione dal peso delle proprie responsabilità:
“Toglie al singolo il peso di dover pensare con la propria testa, di dover giudicare, decidere, rispondere del proprio destino. Questa è la grande tentazione. Ciò che è avvenuto nel 1933 e che è proseguito per dodici anni interi, con conseguenze, alla fine, che paiono del tutto apocalittiche, non si è compiuto solo dall’alto verso il basso, ma anche dal basso verso l’alto” (R. Guardini, Etica, Morcelliana, pp. 840-841).
Alla responsabilità dei cittadini, però, va affiancata anche quella delle classi dirigenti tutte, a partire da quella politica, nell’affrontare un altro dei nodi fondamentali per la sopravvivenza della democrazia: la promessa di un’uguaglianza politica, per cui ogni persona deve godere degli stessi diritti, avere accesso alle stesse opportunità ed esercitare il medesimo grado di influenza politica. È immediato comprendere che questa ambizione è tanto più lontana dall’essere realizzata, quanto più ampie sono le disuguaglianze (economiche, ma non solo) all’interno di una società.
Non sorprende in questo senso che l’analisi dell’astensione in Italia alle elezioni europee di giugno consegni una chiara correlazione tra il tasso di non voto e il reddito. Secondo dati Ipsos, a fronte di una media complessiva nel valore del non voto pari al 53,1%, questo valore aumenta vertiginosamente al diminuire del reddito, toccando un picco del 75,7% per cittadini con un reddito basso e attestandosi a quota 61,8% per quelli medio-bassi. Al contrario, la partecipazione aumenta sensibilmente all’aumentare del reddito: il valore del non voto scende a 49,2% per i redditi medi, a 39% per quelli medio-alti e raggiunge il valore minimo, 32,9%, tra i redditi più alti. Sebbene le cause siano diverse e interdipendenti, questi dati sono inequivocabili e indicano già una prima chiara direzione da perseguire per salvare la democrazia. Mettere in pratica, cioè, il secondo comma dell’art.3 della Costituzione e “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti”. E se non lo si vuole fare per adesione convinta alla promessa democratica, lo si faccia per convenienza ed esigenze di stabilità, come suggeriva già Aristotele nella sua Politica: “perché dove gli uni posseggono troppo e gli altri nulla si giunge alla democrazia estrema o all’oligarchia pura o alla tirannide determinata dagli eccessi dell’una o dell’altra” (p. 365).
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