Le indiscrezioni che circolavano da qualche tempo hanno trovato conferma: Mediaset Premium è passata al gruppo francese Vivendi, in conformità a un accordo che prevede anche uno scambio del 3,5% delle azioni dei due gruppi. Vivendi ha un giro d’affari pari a 10,8 miliardi di euro (contro 3,5 di Mediaset) ed è presente nel segmento della Tv (Canal+), della produzione audiovisiva (Studio Canal) e in quello della musica (Universal Music). Il gruppo francese, fra l’altro azionista di maggioranza con il 24,9% di Tim (dove, seppur indirettamente, entra anche Mediaset), è in vari Paesi: il 42% del fatturato è attinto in patria, il 24% nel resto dell’Europa, il 20% negli Stati Uniti e il 14% nel resto del mondo. Grazie ai circa 2 milioni di abbonati a Premium, il nuovo gruppo arriverà ad avere 13 milioni di abbonati sparsi nel mondo.
La notizia non ha suscitato grande clamore, il che di per sé sarebbe già una notizia. È grave comunque che una grande azienda di comunicazione passi in mano a un gruppo estero: tutti i Paesi, in particolare proprio la Francia, sono attenti e fanno in modo che le proprie grandi aziende rimangano nazionali (a Murdoch, quando dall’Australia arrivò negli Stati Uniti, le autorità imposero di prendere la cittadinanza americana); in Italia queste vicende sono oggetto solo di polemiche politiche passeggere. Abbiamo così “perso” Tim e ora anche Mediaset, o almeno un suo asset importante. Va rilevato che verso Mediaset permane un atteggiamento molto critico: Mediaset viene ancora identificata come l’“azienda-partito”. Ma è un atteggiamento che dovrebbe cambiare (e su questo si dovrebbe impegnare innanzitutto il management). Se è senz’altro vero che Mediaset ha goduto di vantaggi reali e considerevoli vantaggi grazie alla politica, è altrettanto vero che ora rischia di pagarne il prezzo.
Alla fine potrebbero rimanere “nazionali” solo Rai e La7: non certo una bella prospettiva per il pluralismo e la valorizzazione della nostra cultura.
È la stessa politica industriale del governo a dimostrarsi carente. L’ultimo esempio riguarda la recente iniziativa sulla banda larga che favorisce Enel e lascia ai margini Tim (che ha già una rete via cavo, seppur da ammodernare): il rischio è che alla fine, con tempi sicuramente più lunghi e con costi superiori, si possa avere una doppia rete.
Tornando all’accordo Vivendi-Mediaset, va ricordato che per Mediaset il segmento della pay non è riuscito a decollare (559 milioni di ricavi), nonostante il notevole esborso per i diritti della Champions (239 milioni a stagione). Anche a causa del fatto che le squadre italiane non raggiungono mai le fasi finali, la Champions non ha determinato l’aumento di abbonati sperato. Per molti del resto il calcio in Tv è seguito più dai tifosi che dagli amanti del calcio: non a caso l’ultima partita di Champions, Barcellona-Atletico Madrid, ha fatto registrare su Canale 5 dati deludenti, il 10,6% di share e 2,8 milioni di spettatori. Sky, il diretto concorrente di Mediaset, ha più del doppio di abbonati (4,8 milioni contro i 2 di Premium) e un fatturato pari a 2,7 miliardi (di cui 2,4 per gli abbonamenti). La lunga disfida fra Sky e Mediaset Premium è dunque stata vinta da Sky, anche se ora Sky si troverà a competere con un avversario, Vivendi, sicuramente più forte dal punto di vista economico.
Gli spazi del mercato della pay sono piuttosto ristretti, circa il 35-40% delle famiglie (il 28% è già raggiunto nel complesso da Sky e Mediaset Premium), per cui la presenza di due operatori è di per sé problematica e questo anticipa che nel settore continuerà forte la belligeranza.
C’è chi ipotizza che l’accordo avvantaggi Mediaset nell’espansione in nuovi mercati, in particolare in Europa (in Spagna Mediaset possiede la seconda rete, Telefonica), negli accordi sui contenuti audiovisivi (Medusa è leader nel settore cinematografico), e sulla possibilità di gestire in comune l’acquisizione dei diritti sportivi. Senza dimenticare l’ingresso, seppur indiretto, nel capitale di Tim, che vuol dire presidiare la banda larga, l’autostrada dei contenuti audiovisivi, il futuro prossimo della Tv. È indubbio comunque che questo è il primo vero ridimensionamento nella storia di Mediaset, un gruppo abituato da sempre a espandersi. Il vantaggio è essersi “liberato” di un’attività che comportava più costi che ricavi e potersi così concentrare sull’attività da sempre principale, la televisione free.
Anche sulla Tv classica il gruppo manifesta segnali di “rilassamento”. Il palinsesto di Canale 5 sembra stare in piedi, estremizzando, solo su Maria De Filippi e sulla soap Segreti: troppo poco per una Tv che ha saputo negli anni passati stupire. Anche le fiction, a detta di diversi critici, sono peggiorate rispetto a quelle Rai. L’informazione vive ancora secondo gli schemi politici di qualche anno fa. Le tre reti generaliste Mediaset, che nel 2010 arrivavano al 35% di share, ora sono al 26%; Canale 5 è scesa dal 19 al 16%.
Il settore della comunicazione è in continua fibrillazione, mentre per decenni si è caratterizzato per l’immobilismo, incentrato sul duopolio Rai-Mediaset. Mentre questo pezzo va in Rete, Urbano Cairo lancia un’Opas su Rcs, ed è di poche settimane fa la fusione fra «La Stampa» e «la Repubblica».
Si sta dunque definendo un nuovo assetto nel mondo dei mass media. C’è da sperare che questo tramestio porti prima di tutto vantaggi ai cittadini, un’informazione più pluralista e una comunicazione più ricca.
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