Urne inutili. Venerdì 16 dicembre, con un giorno d’anticipo rispetto a quanto preannunciato, la Corte suprema congolese ha confermato la vittoria di Joseph Kabila alle elezioni presidenziali. Nonostante le proteste del principale sfidante, il settantottenne Etienne Tshisekedi, le critiche mosse dalle numerose organizzazioni nazionali e internazionali chiamate a verificare la correttezza del voto, e le perplessità manifestate da alcuni governi, da Washington a Bruxelles, Joseph Kabila è stato confermato per altri cinque anni alla testa di uno fra i più grandi e ricchi Paesi africani. “In Congo la popolazione vota ma non elegge”, ha commentato scorato uno stretto collaboratore dello sconfitto leader dell’Union pour la démocratie et le progrès social (UDPS). Con la nuova legge elettorale che prevedeva elezioni presidenziali a turno unico, d’altra parte, era difficile immaginare un esito diverso. Incassata ma non accettata la sconfitta, le opposizioni hanno annunciato manifestazioni di protesta, e resta da vedere se la calma che ha dominato negli ultimi giorni, assicurata da un massiccio dispiegamento di forze dell’ordine, proseguirà. La tensione infatti è ancora molto alta, soprattutto in alcune aree dell’immenso Paese, come nelle regioni dell’Est, che dopo la devastante guerra a cavallo fra la fine degli anni Novanta e i primi del 2000 faticano a trovare stabilità, nonostante gli sforzi profusi anche sul piano internazionale: il Paese ospita da anni un’importante missione di peacekeeping delle Nazioni Unite che, dal 2010, ha preso il nome di MONUSCO (dove la “s” sta per “stabilizzazione”).
Su questo piano sembra importante il riconoscimento del risultato elettorale da parte degli Stati vicini: in un summit convocato ad hoc il 16 dicembre, ancor prima del pronunciamento dell’Alta Corte, i governi della regione, Kenya, Uganda, Burundi, Tanzania, Repubblica Centrafricana e Zambia, si sono affrettati a congratularsi con il vincitore e ad invitare gli scontenti e gli scettici “ad accettare il verdetto elettorale e ad aiutare nella ricostruzione del paese”. Sulla stessa linea le dichiarazioni del Presidente sudafricano, Jacob Zuma. In effetti, a otto anni dalla fine ufficiale di un conflitto che per violenza e intensità è stato paragonato a una guerra mondiale, ha visto coinvolte le forze armate di nove Stati e una galassia multiforme di gruppi ribelli e ha provocato 5 milioni di vittime, il Congo non sembra uscire dalla spirale di fragilità e sottosviluppo che da decenni lo contraddistingue, nonostante le sue enormi risorse soprattutto minerarie. Proprio la ricchezza mineraria, che si concentra in alcune aree del paese, come nel Katanga e nei due Kivu, è stata fin dall’epoca coloniale motivo di sfruttamento spregiudicato.
Ancora oggi parte della fragilità dello Stato si deve all’incapacità di controllare con efficacia l’intero territorio nazionale e di gestirne le risorse a beneficio del Paese e non di interessi particolaristici, siano essi nazionali o internazionali. Consapevole di queste enormi carenze strutturali, lo stesso Presidente Kabila aveva impostato il suo primo mandato, nel 2006, su due pilastri: tolleranza zero nei confronti della corruzione e la realizzazione di cinque cantieri – infrastrutture, acqua ed elettricità, sanità e educazione, ambiente, occupazione. A cinque anni di distanza da quegli impegni, il Congo resta però uno dei Paesi con il più basso indice di sviluppo umano; quanto ai cinque cantieri, molti, anche fra i sostenitori del presidente, ritengono che si tratti di un pacchetto troppo ambizioso, nonostante qualcosa, soprattutto negli ultimi due anni e soprattutto grazie all’onnipresenza cinese, si cominci a vedere. Non è un caso che in campagna elettorale Kabila abbia puntato molto sulla necessità di proseguire quanto iniziato. Stando alle dichiarazioni dei vicini africani, che hanno preso le distanze dai principali governi occidentali esitanti a riconoscere la piena legittimità del voto, Kabila può contare su un quadro regionale che, per il momento, lo appoggia. Aspetto non di poco conto sia sul piano degli equilibri interni, sia su quello dei rapporti internazionali. Di fronte all’incertezza di un’elezione tanto contestata si potrebbero infatti aprire prospettive allarmanti per un paese che per eterno paradosso – e tanto più sullo sfondo della crisi economica globale – deve guardare alle proprie ricchezze come a un ulteriore fattore di rischio, anziché come a una fonte cui attingere per una stabilizzazione definitiva.
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