Le linee portanti dell’Italicum sono ormai note. In 100 collegi plurinominali sono presentate liste di candidati in ordine alternato per sesso. La distribuzione dei seggi avviene con criteri proporzionali, escluse le liste che non abbiano raggiunto il 3% dei voti validi. Alla lista più votata che raggiunga almeno il 40% dei voti validi è attribuito un premio di maggioranza: 340 seggi sui 630 deputati. In mancanza, il premio viene assegnato, in un ballottaggiofra le due liste più votate, a quella che ottiene il maggior numero di voti. Sono proclamati eletti, fino alla concorrenza dei seggi che spettano a ciascuna lista, dapprima il capolista nei collegi, quindi i candidati che hanno ottenuto il maggior numero delle preferenze (ogni elettore dispone di una preferenza, di due se vota due candidati di sesso diverso).
Non credo che sia il migliore dei sistemi elettorali (ciascuno di noi crede di avere la formula giusta, come per la Nazionale di calcio) ma, a mio avviso, è il migliore di sistemi possibili con questo Parlamento e con gli equilibri politici che esso esprime. Non mi convincono la pluralità delle candidature e le clausole di esclusione; perché la prima interrompe il rapporto diretto con gli elettori del collegio pluri-nominale e perché la clausola troppo bassa (il 3%) non incentiva l’aggregazione di uno schieramento alternativo a quello vincente. Ma mi rendo conto che modificando questi punti verrebbe ad alterarsi la base parlamentare che sostiene questo progetto (la clausola bassa è stata voluta dalla minoranza interna del Pd e dai partiti alleati di governo), e in politica bisogna arrendersi di fronte al principio di realtà.
La mancata approvazione del testo Boschi non ci assicurerebbe una legge migliore, ma solo l’incognita di nuove elezioni con il sistema ritagliato dalla Corte costituzionale e comunque accrescerebbe il discredito interno e internazionale per l’inconcludenza delle nostre istituzioni. Dico questo anche perché non mi convincono gli argomenti degli oppositori. Vediamoli più da vicino. Essi riguardano in particolare la possibile alterazione della forma di governo e il tema delle preferenze.
I critici obbiettano che mettendo insieme una legge elettorale che assicura una maggioranza alla lista più votata e la presenza di una sola Camera politica si verrebbe ad alterare la forma di governo, fuoriuscendo dal sistema parlamentare e realizzando un “presidenzialismo di fatto” senza i contrappesi necessari. Non capisco il riferimento al “presidenzialismo”, sistema che fa perno sul capo dello Stato come organo di governo. Certamente, invece, saremmo di fronte a un rafforzamento del primo ministro, che verrebbe ad avere una legittimazione politica diretta. Ma questa è, da tempo, la caratteristica di tutti i sistemi parlamentari funzionanti (Regno Unito, cancellierato tedesco, premierato spagnolo).
Agli inizi degli anni Novanta un sistema siffatto fu alla base dei progetti del movimento referendario, in alternativa al presidenzialismo di Craxi o di Cossiga, ma era anche stato alla base dell’elaborazione di Roberto Ruffilli (il “cittadino come arbitro”). Fu una delle due alternative (premierato vs semipresidenzialismo) su cui lavorò la Commissione D’Alema, ed è stata, infine, nei mesi scorsi la formula adottata a larga maggioranza all’interno della Commissione dei 35 saggi voluta dal governo Letta. Dopo un’approfondita discussione fu prospettata una formula di compromesso fra chi voleva mantenere i tratti assemblearistici della nostra forma di governo (sia pure “razionalizzati”) e chi invece preferiva una forma di governo semipresidenziale (peraltro votata dal Senato allo scadere della XVI legislatura).
Obiettano i sopracitati commentatori: così si rafforzerebbe comunque il governo “senza adeguati contrappesi”. È un luogo comune ormai trito. Ma quali sono i contrappesi nel Regno Unito, dove il primo ministro decide l’ordine del giorno di Westminster (per i tre quarti del tempo)? Dove tramite il cancelliere dello Scacchiere può porre il veto su qualunque emendamento che aumenti la spesa o diminuisca l’entrata? Dove il capo dello Stato (a differenza dell’Italia) ha solo funzioni simboliche? Dove non esiste una Corte costituzionale come quella italiana? Dove i magistrati non hanno le garanzie che assicura la Costituzione italiana (gli inquirenti sono in pratica o funzionari del governo o la stessa polizia)? Dove non esistono i referendum di tipo abrogativo? Né, credo, che la Camera dei Lord possa oggi rappresentare un contrappeso rispetto alla Camera dei Comuni, maggiore di quanto non possa il progettato Senato regionale.
Si aggiunge talvolta che il presidenzialismo americano conosce un contrappeso nelle due Camere, ma si dimentica di sottolineare che i presidenti godono di un potere di veto inimmaginabile in un sistema parlamentare. In ogni caso la forma parlamentare di governo stabilisce un legame fra governo e maggioranza parlamentare attraverso il rapporto di fiducia. Quindi non ha senso cercare i contropoteri nel Parlamento inteso in un tutto unico (la letteratura europea ha sempre sostenuto che il “governo è il comitato direttivo del Parlamento”), ma piuttosto nei poteri che vengono riconosciuti ai singoli parlamentari e alle opposizioni. Da qui l’opportuno riferimento nel testo di riforma costituzionale a uno “Statuto delle opposizioni”.
Non va dimenticato, peraltro, che il progetto di riforma costituzionale valorizza l’attività parlamentare ponendo limiti alla decretazione d’urgenza e prevedendo, appunto, prerogative specifiche per le opposizioni; valorizza altresì la partecipazione popolare, rendendo più agevole il raggiungimento del quorum per le consultazioni referendarie (ossia abbassandolo sensibilmente) e assicurando termini certi per la discussione dei progetti di legge di iniziativa popolare.
Infine, il progetto eleva le soglie per l’elezione del capo dello Stato, andando al di là delle possibili maggioranze politiche (e, lo dico rapidamente , il regolamento del Parlamento in seduta comune – o se necessario una legge – potrebbe andare oltre, imponendo il preventivo deposito di una o più candidature da parte dei gruppi di parlamentari e introducendo forme di voto che valorizzino l’apporto dei singoli parlamentari rispetto agli accordi fra i partiti e rafforzino così la figura di garanzia del capo dello Stato: per esempio, il sistema di voto “trasferibile” o “alternativo” – transferable vote, ranked choice voting o preferential vote –, lo stesso con cui si eleggono il sindaco di Londra o taluni Parlamenti consentendo l’utilizzazione di tutte le preferenze espresse).
In realtà – se si guarda più a fondo – questi contrappesi dovrebbero essere individuati, secondo i critici, nella presenza di coalizioni, quindi nelle minoranze interne alle maggioranze. L’Italicum invece assegna il premio alla lista più votata e non alla coalizione di liste. È questa una buona soluzione, che tiene conto di una critica martellante che negli anni scorsi veniva rivolta a tutti i sistemi maggioritari (o parzialmente maggioritari) fin qui sperimentati in Italia: quella di dare vita a coalizioni rabberciate, idonee a vincere ma non in grado di governare. Critiche più che fondate, che infatti portarono alcuni di noi all’iniziativa referendaria del 2009 (il cosiddetto referendum Guzzetta), che passò il vaglio di ammissibilità della Corte costituzionale (sentenza n. 15 del 2008) ed ebbe la stragrande maggioranza dei votanti, ma non ottenne il prescritto quorum degli aventi diritto al voto. Quel referendum, incidendo con un taglio sull’espressione “premio alla lista o alla coalizione di liste”, tendeva ad assegnare il premio alla lista più votata. Scorrendo i nomi dei promotori si trovano non pochi critici dell’attuale soluzione, da Rosi Bindi a Renato Brunetta. Allora si dichiararono favorevoli sia Veltroni, che schierò a favore larga parte dei Ds, ma tuttavia non firmò per non indebolire la variegata coalizione che sosteneva il governo Prodi, da Mastella a Turigliatto; sia lo stesso Berlusconi, che, pur condividendo l’iniziativa, non firmò, preoccupato – disse – dei buoni rapporti con la Lega Nord. Allora si trattava di coalizioni presenti in una competizione a turno unico: ancor peggio sarebbe se – come prospettato da più parti – si desse la possibilità di dare vita a coalizioni fra il primo e il secondo turno, in una fase in cui maggiore può essere la rendita di posizione di taluni partiti. Sostiene qualche autorevole commentatore – evidentemente di corta memoria – che un premio siffatto sarebbe concepito a favore del Pd, oggi primo partito. Ma quando si svolse il referendum nel 2009 lo stesso commentatore sosteneva che fosse su misura del Pdl, che superava allora di più di 10 punti il Pd.
Per me – lo ripeto – è un’ottima soluzione, che non esclude – è vero – che la coalizione di liste possa essere soppiantata da una “lista di coalizione”; ma si tratterebbe di una lista pur sempre legata al medesimo programma e al medesimo leader, con non pochi benefici per la stabilità e la governabilità.
Faccio un’obiezione a me stesso: ma nelle elezioni comunali è prevista la possibilità di ridefinire le coalizioni fra il primo e il secondo turno? A parte il fatto che trattasi di una soluzione poco praticata, va sottolineato che in quel sistema gli effetti disgregativi di coalizioni non omogenee sono fortemente contenute dalla elezione diretta del sindaco e dalla presenza della clausola simul stabunt, simul cadent. La scelta della concorrente riforma costituzionale, come è noto, non tocca la forma di governo ma solo il principio bicamerale (una sola Camera politica, come in tutte le democrazie parlamentari) e le competenze regionali. Il sistema rimarrebbe parlamentare non essendo toccati i poteri del capo dello Stato e permanendo il rapporto di fiducia fra Parlamento e governo (le vicende dei governi negli anni Novanta, da Berlusconi a Prodi, lo dimostrano), ma si rafforzerebbe solo la figura del primo ministro in quanto leader della lista vincente.
Questo sistema si regge, data la frammentazione del sistema politico, che difficilmente assicurerà una maggioranza al primo turno, sul ballottaggio fra le prime due liste. Ma al secondo turno – viene obiettato – potrebbe aversi una caduta della partecipazione così assegnando la vittoria a una lista che al primo turno ha avuto un consenso ridotto. Non capisco da dove viene tratta questa convinzione. Normalmente così non è, né in Italia né in altri Paesi, allorché al secondo turno si profila una reale competizione. Ma, peraltro, quale, in regimi a turno unico, la base elettorale che elegge i presidenti degli Stati Uniti (un quarto degli elettori per lo più) o che investe il partito maggiore nel Regno Unito (con il 37-40% ottennero importanti vittorie elettorali Margaret Thatcher o Tony Blair)? È nella logica del ballottaggio (per quanti, almeno, guardano con favore a qualsiasi doppio turno) che al secondo turno l’elettore possa cambiare il proprio voto, votando il candidato o il partito meno sgradito e così consentendo al vincitore di raggiungere almeno il 50% dei votanti.
Lo dico più in generale: la funzione dei sistemi elettorali, ci ricordava Maurice Duverger, non è quella di un appareil photografique, ma quello di fungere da transformateur d’energie della sovranità che spetta al popolo. È impossibile rappresentare tutti gli interstizi di una società (lo possono talvolta fare i “sondaggi”), ma è già un successo democratico consentire ai cittadini di decidere direttamente le maggioranze di governo scegliendo la “più forte delle minoranze” in competizione.
I capilista nominati? È un’obiezione su cui insiste la minoranza interna al Partito democratico. Forse ricordo male, ma nella Prima Repubblica, dove i voti di preferenza contavano (nel bene e nel male), c’è mai stato un capolista che non sia stato eletto? Ciò avveniva proprio perché il capolista era collocato dal proprio partito (“quindi nominato”) in quella posizione di visibilità e preminenza? Ma allora i capilista li sceglievano i “capicorrente” e con i voti di preferenza misuravano la consistenza della corrente: non mi pare un buon precedente da riesumare.
Vantaggi e svantaggi del sistema delle preferenze sono arcinoti. Se ne è discusso tanto: da “male assoluto” non possono trasformarsi in “bene assoluto”. Mi limito a una domanda. Non temono i sostenitori dell’allargamento delle “preferenze” che il nuovo reato di “scambio politico elettorale” (la nuova formulazione dell’art. 416 ter approvato nell’aprile 2014) possa appesantire il lavoro della procure della Repubblica? Fino a qualche anno fa si consideravano virtuose le regioni ove si registrava un minor numero di preferenze esprimibili (il 15% circa in Lombardia o Veneto rispetto all’80% circa dei territori meridionali), perché meno inquinate da voti clientelari; ma oggi, viste le infiltrazioni criminose anche nelle regioni settentrionali, non deve preoccupare ancor più lo scarso ricorso al voto di preferenza che darebbe (accade già nelle elezioni comunali e regionali) ancora più risalto al controllo di poche centinaia di voti da parte di gruppi di pressione (non sempre limpidi)? E che dire del colpo definitivo che il ricorso in larga scala alle preferenze può infliggere ai partiti, già per vari versi indeboliti, a vantaggio di “fondazioni” e comitati elettorali vari?
Non credo, infine, che questo testo ponga problemi di legittimità costituzionale. Anzi, colgo l’occasione per dissociarmi da quei colleghi costituzionalisti (pochi in realtà, ma con le spalle coperte da importanti mezzi di informazione) che con troppa leggerezza mettono in campo la Carta costituzionale (delegittimando più la Carta che il testo di riforma elettorale). Se problemi ci sono, essi vanno valutati in termini di coerente “politica costituzionale” (“comparata”, possibilmente) non in termini di “diritto costituzionale”.
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