L'annuncio della fusione tra Fca e Psa ha rilanciato la riflessione sulle relazioni tra Francia e Italia. Paesi per molti aspetti simili e allo stesso tempo diversi tra loro, spesso vittime di immagini riflesse e di equivoci. Nel corso del tempo, i loro rapporti hanno segnato diverse stagioni politiche, sino a quando con l’avvento del governo giallo-verde si è aperta la fase peggiore delle loro relazioni. La visita di Di Maio ai gilets jaunes all’inizio dello scorso febbraio e le scaramucce quotidiane tra Salvini e Macron sugli immigrati hanno portato la relazione a livelli mai raggiunti, tanto da provocare il richiamo dell’ambasciatore francese da Roma.Tuttavia, anche durante la legislatura precedente, molteplici erano stati i segni precursori di un peggioramento dei rapporti. La questione Stx-Fincantieri era nata durante il governo Gentiloni, con Macron che preannunciava la nazionalizzazione per tener fede a una promessa elettorale. Difficile comprendere tale levata di scudi in Italia contro i «cugini d’Oltralpe», se prima Stx era stata già venduta ai coreani (da cui appunto Fincantieri l’aveva comprata). Il complesso accordo, siglato dopo lunghe trattative dai ministri Le Maire e Calenda, non ha mai dissipato del tutto i sospetti.
Già in precedenza, durante il governo Renzi, si erano avute incomprensioni con Hollande, a cominciare dal non-sostegno francese alla pressante richiesta italiana di togliere le spese per investimenti dal patto di stabilità e dal fiscal compact. Falliva così la battaglia per trasformare le regole di Maastricht. La delusione dello stesso Renzi – pur coccolato dai media francesi come nuovo tipo di leader europeo – era stata cocente. Si era poi avuta una discussione pesante sui confini marittimi al largo della Liguria e verso la Corsica (ancora in atto) e sui confini terrestri del Monte Bianco: i media italiani parlavano di «sconfinamenti francesi» e spostamento abusivo dei cippi di frontiera.
Proprio in quel periodo aveva inizio la reazione francese contro i migranti che cercavano di oltrepassare il confine a Ventimiglia o all’altezza di Bardonecchia, nelle Alpi, che assumerà poi tratti pubblici durante il primo governo Conte. A chi se ne lamentava, i francesi ricordavano che durante l’ultimo governo Berlusconi l’Italia aveva dato documenti provvisori validi per l’espatrio alle decine di migliaia di tunisini che poi, nel 2010, si erano riversati tutti in Francia.
Ma la polemica raggiunge il punto più basso sulla questione dei migranti in Libia e Africa Occidentale. Il M5S «inventa» la controversia sul franco cfa, definendolo «coloniale» e riesumando vecchi riflessi panafricani. Salvini punta il dito contro l’appoggio francese a Haftar (che pure esiste) riprendendo in maniera virulenta un contrasto nato all’epoca del vertice di Parigi a La Celle Saint-Cloud tra Macron, Haftar e Serraj (peraltro fallito). La gestione dell’area del Sahel è uno dei motivi di contesa, dal momento che i francesi interpretano l’attivismo italiano (tre ambasciate aperte in due anni e nuovi rapporti con Niger e Ciad) in maniera interrogativa.
Con i grillini in piena espansione anche la questione Tav inizia a diventare un punto di disputa. In quel difficile 2017, Marc Lazar commenta sulla stampa: «L’Italia ha la tendenza a investire troppo nella relazione con la Francia, la quale non dà prova di ricambiare le attenzioni. L’Italia critica l’arroganza e il nazionalismo della Francia; la Francia sospetta l’Italia di manovre sleali e dubita della sua credibilità. Sarebbe ora di superare questi ostacoli».
La fase che va dall’unificazione tedesca all’euro aveva visto l’Italia perdere progressivamente influenza in Europa. Se fino a quel momento Roma era stata pivot di molti accordi e sovente mediatrice tra Bonn e Parigi, ora lo scambio «unificazione tedesca contro moneta unica» la mette in secondo piano. A quel tempo lo si nota subito dal quel «It’s not your business!» che Gensher lanciò brutalmente a De Michelis che cercava di dire la sua sulla riunificazione, fino al disinteresse franco-tedesco per l’entrata dell’Italia nella stessa moneta unica (che costrinse Prodi a un insolito tentativo – peraltro mancato – di cercare l’appoggio spagnolo). L’Italia non si rende subito conto di essere divenuta marginale. E solo grazie all’Ulivo Roma non perde il treno dell’euro: Berlusconi l’avrebbe probabilmente lasciato andare.
Tuttavia, il posto dell’Italia a Bruxelles è minato da una serie di debolezze: in primis il debito pubblico, divenuto un parametro essenziale. Ma c’è anche un tema di credibilità: nessuno riesce più a capire se le riforme in senso liberale (e in seguito l’austerità) si faranno o meno. I mercati restano incerti. I governi Ciampi e Dini (come farà poi Monti) cercano di imporre una sterzata verso il rientro dal debito che non riesce. Forza Italia si configura come il partito della difesa degli interessi acquisiti (e della spesa facile) mentre il sistema italiano non muta le sue rigidità. La propaganda del centrodestra si concentra su «meno tasse per tutti» e sull’appello ai consumi. Sembrava nuova, ma si tratta di una ricetta d’altri tempi: l’Italia non ha mai compiuto la sua rivoluzione liberale, che lo stesso Prodi aveva preparato mediante le privatizzazioni (che anzi vengono criticate proprio dai cosiddetti liberal-democratici).
Alla luce dei fatti successivi, molti giudicano oggi quello stallo come un evento positivo, facendo il confronto in particolare con la Francia di Macron alle prese (certo, a un altro livello) con lo stesso dilemma. Allo stesso tempo, tuttavia, non sono stati corretti i difetti storici del sistema italiano, mantenuto per inerzia: burocrazia, lentezza della giustizia, corruzione, evasione e instabilità di governo. Gli italiani davano fiducia al centrodestra purché il sistema restasse invariato. Ciò colpiva la cultura politica sia della destra sia della sinistra: di fronte a proposte di riforme costituzionali, i referendum bocciavano entrambi gli schieramenti. Paradossale anche la sinistra che ha rinfacciato per anni a Berlusconi di non aver fatto le riforme, assumendole de facto nei propri programmi (le «lenzuolate» liberalizzanti di Bersani) e divenendo social-liberale. Il tragico errore emergerà con tutta evidenza dopo la crisi del 2007-2008.
L’atteggiamento maggioritario dell’opinione pubblica è – mutatis mudandis – identico a quello francese: in entrambi i casi la gente non si fida della globalizzazione e vuole tornare indietro. Nel caso francese, chiedendo allo Stato di continuare a fare Welfare e difesa del lavoro a livello centrale (per esempio con più assunzioni e diminuendo l’età pensionistica, come fece Hollande portandola a 60-62, mentre Macron come si vede non riesce ad alzarla); nel caso italiano, restando osservanti di regole non scritte del sistema ibrido «clientelare-gruppi di interesse», chiedendo allo Stato di continuare a chiudere un occhio su evasione, lavoro sommerso, in nero e soprattutto di non aumentare le tasse.
Malgrado le contraddizioni, tra Italia e Francia c’è un indubbio terreno comune: quello della ricerca di una nuova via tra austerità alla tedesca (sposata dal Nord Europa) e crisi alla greca (complice la crisi globale). Quale sistema deve prevalere all’interno della Ue? L’austerità non funziona perché aumenta le diseguaglianze; il mercato selvaggio dell’iperliberismo all’anglosassone è addirittura pericoloso. Di conseguenza cosa possono e devono fare assieme Francia e Italia affinché non soccomba l’idea del welfare europeo e dell’economia pubblica? La crisi dei gilets jaunes dimostra che anche lo Stato forte alla francese può essere scosso. L’avvento dei sovranisti alla Salvini o alla Marine Le Pen annuncia altresì che si può essere tentati dalla scorciatoia del vecchio nazionalismo che ha già dato pessima prova di sé.
L’economista transalpino Picketty ha tentato una lettura nuova, basata sul contrasto alle diseguaglianze. Tale è il terreno di interesse comune italo-francese: ripensare una nuova dottrina economica e sociale per affrontare il dilemma della dicotomia Welfare/mercato prima che non sia troppo tardi.
La crisi libica e quella parallela del Mali (e del Sahel in generale) dimostrano quanto siano necessarie politiche estere armonizzate nei riguardi del grande Sud dell’Europa. Finora Italia e Francia si sono comportate come se l’altro non esistesse. L’Italia ha tradizionalmente riconosciuto una preminenza francese nel suo pré carré arabo-africano e assurdamente continua a farlo anche quando la Francia ha invece richiesto esplicitamente aiuto (come nel caso del Mali). A tale riguardo c’è certamente un’inerzia mentale della nostra diplomazia che non percepisce i mutamenti, ma anche una malcelata soddisfazione per i problemi altrui. Dal canto suo la Francia non ha mai digerito che, malgrado il suo controllo politico sul terreno, l’Eni si sia progressivamente issata al primo posto di produttore di gas e petrolio in Africa. Non solo: negli ultimi 4 anni l’Italia è anche passata dal 21° al 3° posto come investitore diretto nel continente, superandola. Si tratta di un topos delle relazioni franco-italiane: fin dall’unità italiana, a scadenze regolari, i francesi si sorprendono della resilienza italiana. Come diceva Craxi, frase che i francesi riprendevano spesso: «E la nave va» («Et vogue le navire»).
Oggi appare chiaro che l’interesse comune è stabilizzare l’intera area, il che si può provare a fare solo assieme. Deve realizzarsi una nuova partnership con l’Africa che utilizzi il savoir-faire francese ma anche le novità introdotte dall’Italia, in particolare il suo metodo più dialogico e meno impositivo. L’Africa oggi è molto cambiata, da ogni punto di vista, e allo stesso tempo deve cambiare la politica europea. Solo Francia e Italia hanno l’esperienza (diversa ma comune) per affrontarla.
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