Dighe e repressione in Turchia. Tra i principali attori della “politica dell’acqua” in Medioriente, la Turchia sfrutta le sorgenti dei maggiori fiumi che nascono e scorrono nel cuore del Kurdistan. Ankara gestisce il dominio di tali corsi d’acqua sia a discapito degli Stati confinanti, Siria e Iraq, sia delle popolazioni che abitano i territori dell’Anatolia orientale e sudorientale, a maggioranza curdofona. È proprio dallo sfruttamento delle acque di Tigri e Eufrate, del Grande e Piccolo Zab e del Munzur che si sviluppa la politica assimilazionista del governo centrale nei confronti della minoranza curda. Politica che rientra a pieno titolo nella creazione della questione curda, parte fondante la più generale questione identitaria che prende piede in Turchia dalla nascita della Repubblica, il 29 ottobre 1923.
Già dagli anni Trenta, caratterizzati dalla politica del leader e fondatore della Repubblica, Mustafa Kemal Atatürk, prende avvio la progettazione di dighe e centrali idroelettriche con obiettivo dichiarato di riqualificare, sviluppare e creare lavoro in quelle aree del Paese segnate da povertà e arretratezza. I primi progetti nascono a metà anni Trenta, ma il periodo più produttivo è negli anni Settanta, gli “anni di piombo”, che prendono avvio e terminano con due dei tre colpi di Stato, 12 marzo 1971 e 12 settembre 1980, che hanno fortemente segnato la storia della Turchia.
Il culmine della progettazione si è avuta con il Gap (Güneydoğu Anadolu Projesi - Progetto dell’Anatolia sudorientale), elaborato negli anni Settanta, modificato diverse volte a partire dal decennio successivo e tuttora in fase di realizzazione sul fiume Tigri, che prevede la costruzione di 22 dighe, 19 centrali idroelettriche e un numero indefinito di infrastrutture. Diventato famoso per la costruzione della diga Ilisu, che in caso di realizzazione e messa in funzione sommergerebbe la cittadina di Hasankeyf (12.000 anni di storia), questo progetto è stato presentato come assolutamente innovativo, portatore di sviluppo e posti di lavoro a favore della popolazione residente. Infatti, secondo le dichiarazioni ufficiali del governo turco, lo scopo del Gap sarebbe “eliminare le disparità nello sviluppo regionale, accrescendo i livelli di reddito della popolazione e gli standard di vita” e di conseguenza “contribuire agli obiettivi nazionali della stabilità sociale e della crescita economica”.
Perché tanto clamore per progetti presentati come innovativi e fondamentali per la crescita economica e sociale di questa parte del Paese? In realtà ciò che viene contestato da società civile, associazioni ambientaliste e di diritti umani è l’intenzione che si celerebbe dietro queste opere. Infatti, se si osservano i vari documenti e le conseguenze che la popolazione residente è costretta ad affrontare, è palese come essa subisca dei danni che ampiamente superano i bassissimi benefici prodotti dai progetti. Già nel 1931, una relazione sottoposta al governo dall’esercito dichiarava che “la valle del Munzur sarebbe dovuta essere totalmente sommersa dall’acqua con l’obiettivo di liquidare e sterminare la popolazione di Dersim”. Un obiettivo che in parte si è raggiunto con la costruzione della diga Keban, nel 1974. Le principali contestazioni sono date dall’assenza di informazioni fornite alle popolazioni interessate dai progetti, dall’assenza di consultazioni con le stesse e con le organizzazioni locali, e dalle disastrose conseguenze ambientali e sociali che la realizzazione dei progetti comporta a fronte di produzioni energetiche irrisorie. A livello ambientale la costruzione delle dighe comporta la distruzione di siti ricchi di fauna e flora unici in Turchia, come il Parco nazionale del Munzur, dichiarato tale nel 1971, al cui interno è stata costruita la diga Keban. Inoltre, sono sotto minaccia tantissimi siti di interesse storico e archeologico, come Hasankeyf, luogo culturalmente importante per l’etnia curda perché considerata parte irrinunciabile della propria identità, un patrimonio al quale è molto legata e dal quale si sente protetta. Tutto ciò comporta una costrizione di ondate migratorie, reinsediamento in zone di più facile controllo e rinuncia delle proprie caratteristiche culturali e identitarie che spingono sempre più la minoranza curda ad un’integrazione forzata all’interno della maggioranza turca, elemento necessario all’accettazione da parte del governo centrale.
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