La rivolta innescata dalla morte di Mahsa Amini è sfociata in una crisi senza precedenti nella Repubblica islamica d’Iran. Centinaia di vittime e migliaia di arresti costituiscono il provvisorio bilancio di un sommovimento che scuote alle fondamenta il regime. Alla protesta delle giovani donne urbane contro la biopolitica islamista fondata sul controllo sociale del corpo femminile, simboleggiata dal disvelamento pubblico di massa, dal taglio di quei capelli che, secondo il regime, vengono esibiti “ostinatamente” dalle bad hejab (le “mal velate”), trasformando la seduzione in sedizione, si è saldata quella degli uomini. In strada scendono ormai non solo donne ma anche molti uomini, le une e gli altri di diversa condizione sociale e differenti etnie.
Chi manifesta non chiede una correzione di rotta del “sistema”, ritenuta impossibile, ma la sua fine. E ciò muta anche natura e intensità della repressione. Negli scorsi decenni nella Repubblica islamica non sono mancate forti fibrillazioni: dallo scontro tra conservatori e riformisti durante l’era Khatami alla protesta dell’Onda verde contro il “colpo di Stato nelle urne” che ha confermato Ahmadinejad alla presidenza, sino ai moti contro il carovita repressi nel sangue. Ma la situazione in corso assume i tratti di una vera e propria crisi di legittimazione. In discussione non vi è solo un indirizzo politico, o una stretta più o meno rigida dei costumi, bensì la stessa natura del regime. Come rivela un gesto che, in altre circostanze, poteva sembrare solo un’irridente pratica goliardica: lo schiaffo che, per strada, fa volare via il turbante dei chierici sciiti. Oltraggio che esprime, anche plasticamente, la fine della sacralità del potere.
In discussione non vi è solo un indirizzo politico, o una stretta più o meno rigida dei costumi, bensì la stessa natura del regime
La protesta può condurre al tracollo della Repubblica islamica? Estensione, dinamiche, “stanchezza” di un potere sempre meno in grado di chiamare alla “mobilitazione totale”, farebbero pensare di sì: ma l’esito non è affatto scontato. Il regime dispone ancora di una base di massa, in particolare tra i corpi militari e paramilitari, dai Pasdaran, i “guardiani (della rivoluzione islamica komeinista)” ai Basiji (la polizia religiosa), e tra i molti beneficiari degli interventi a favore dei “diseredati” finanziati dalle fondazioni religiose che fanno capo al clero conservatore. Forze decise a non cedere il passo senza reagire.
Quanto ai rivoltosi, sommano insieme forza e debolezza. Le nuove generazioni in piazza, cresciute fuori da ogni orizzonte politico e globalmente connesse, non sono gravate dal fardello della memoria. Dunque, nemmeno da quella della sconfitta. Condizione psicologica che si traduce in audace innalzamento della sfida. Ma una rivolta non è solo questione di effervescenza collettiva: la mancanza di leadership e di un’organizzazione che consenta di restare in scena malgrado la repressione – dimensione che differenzia un moto da un movimento, una rivolta da una rivoluzione, un disagio esistenziale da un progetto politico –, restano fattori decisivi. Dalla piazza iraniana emergono invece, per ora, solo volti e nomi delle vittime. Del resto, il regime ha messo fuori gioco tutte le opposizioni non di “sistema”. Quanto alla “resistenza” estera non pare, per il momento, in grado di svolgere un ruolo significativo: anche se Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia sembrano decisi a sostenere chi si ribella.
Senza strutturarsi politicamente la protesta rischia di diventare un sanguinoso rito sacrificale. In passato a beneficiare delle mobilitazioni contro i conservatori religiosi erano i riformisti. La Repubblica islamica è, infatti, un’oligarchia di fazioni, articolata in veri e propri partiti ritenuti legittimi se si riconoscono nel “sistema”. Attori che agiscono in una cornice istituzionale imperniata su organi a legittimazione politica, come il presidente della Repubblica o il Parlamento, e organi a legittimazione religiosa, come la Guida suprema o il Consiglio dei Guardiani. Quando tali organi sono politicamente omogenei e, come oggi, sono controllati dai conservatori religiosi, gli spazi per le fazioni inclusive, come quella riformista, si contraggono.
I moti di piazza sono imponenti: tuttavia, senza strutturarsi politicamente la protesta rischia di diventare un sanguinoso rito sacrificale
La sponda riformista ha costituito, allo stesso tempo, una protezione e un vincolo per la piazza, dal momento che per timore, scarsa convinzione, rapporti di forza, quella fazione non ha mai condotto sino in fondo lo scontro. È accaduto tra il 1997 e il 2005, durante l’era dell’allora presidente Khatami; nel 2009, con la protesta dell’Onda contro i brogli elettorali che sanciscono la vittoria del presidente uscente Ahmadinejad su Mousavi, erede designato del khatamismo ormai in declino. Khatami e Mousavi, così come il leader della corrente pragmatica Rafsanjani, che nella circostanza prenderà le distanze dalla repressione, erano comunque figli della Repubblica islamica. Figli divorati dalla rivoluzione divenuta regime ma pur sempre figli! Si distinguevano dai conservatori per i mutamenti che intendevano perseguire, non per la volontà di cambiare il “sistema”, tenacemente difeso dai khomeinisti in turbante. Oggi sia Khatami sia un realista come l’ex presidente del Parlamento Larijani esortano i fedelissimi di Khamenei a fermarsi e cercare di ricucire. Ma la piazza ha ormai imboccato traiettorie non intercettabili, nemmeno da quanti presidiano i margini del sistema. Situazione che può preludere a un indiscriminato schiacciamento della rivolta senza leader.
In Parlamento i conservatori religiosi hanno marchiato i rivoltosi come mohareb, nemici di Dio: dunque punibili con la pena di morte. E quando gravi tensioni minacciano la Repubblica islamica sono i Pasdaran, fedeli al compito di “difendere la Rivoluzione e le sue conquiste”, a far udire il “tintinnar di sciabole”. Rumore udito in passato dai riformisti, accusati di “gorbaciovismo”; dai capi dell’Onda bollati come “deviati”; dalla destra radicale di Ahmadinejad, imputata di spingere su una linea “antimperialista e antisionista” che rischiava di condurre il Paese a uno scontro militare destinato a mettere a rischio la stessa sopravvivenza del regime. Lo hanno fatto sentire anche in queste settimane, dichiarando chiuso il tempo delle proteste.
L’assenza di sapere insurrezionale, di una leadership capace di scorgere i rischi e valutare la rilevanza del fattore tempo nello scontro frontale, oltre che di una fazione di sistema sulla quale premere per indurre i manifestanti a rientrare nei ranghi, potrebbe spingere i Pasdaran, qualora polizia e Basiji non riuscissero a stroncare l’insubordinazione, a intervenire. I più anziani e alti in grado tra loro conoscono i rischi del logoramento di massa: hanno già visto trionfare una “rivoluzione con le mani nude”, anche se, ai tempi dello shah, erano dall’altra parte della barricata.
Un intervento diretto, però, sarebbe l’extrema ratio. I contraccolpi potrebbero, tra l’altro, vanificare una suggestione mai del tutto abbandonata, riemersa con la crisi del velo e dei turbanti: dare forma loro stessi, sia pure seguendo una diversa linea, al progetto extra-clericale di Ahmadinejad, fondato sulla sostituzione del ceto politico della fazione dominante. Facendo transitare il “sistema”, dopo la scomparsa di Khamenei, ultimo esponente di primo piano degli antichi compagni di Khomeini, sotto le insegne di un khomeinismo senza clero destinato a fare della Repubblica islamica una sorta di regime militare. Ispirato da un khomeinismo con le stellette, diverso da quello normativista e religioso dei conservatori che si richiamano al “governo del dotto islamico” o da quello sociale, agitato dalla destra radicale, inneggiante ai “diseredati”. Espressione di un realismo politico in divisa, capace di elevare l’Iran a potenza riconosciuta e portare a compimento il passaggio, anche formale, a un ordine che da tempo ha sostituito il Dio del Politico al Dio della Devozione.
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