Si può disegnare un progetto per l’intero Paese senza definire le modalità di coinvolgimento delle città italiane e senza disegnare prospettive per il loro futuro, a cominciare da quello di Roma? È il rischio che si sta correndo in Italia in queste settimane.

Si comincia a conoscere un po’ di più delle intenzioni del governo sull’utilizzo delle risorse europee grazie alla diffusione dell’aggiornamento del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il documento rappresenta un passo avanti rispetto alle precedenti versioni. C’è una prima suddivisione delle risorse disponibili fra le sue grandi missioni; leggendolo, si trovano anche indicazioni di massima sui “progetti”. Ancora molto opaca appare però la visione dell’Italia del futuro verso la quale si vuole andare.

La sua diffusione, finalmente, sta provocando un po’ di discussione. Certo, una discussione almeno in parte tutta interna alle forze politiche, né particolarmente interessante né particolarmente utile, come sottolineava anche su queste colonne pochi giorni fa Carlo Trigilia. Ma per il resto, è davvero benvenuta. Difficile immaginare che un programma così complesso e ambizioso, da cui dipende gran parte del nostro futuro, possa essere tutto costruito da un piccolo gruppo di persone. È un bene che se ne discuta nel Paese, e poi, approfonditamente, nel Parlamento.

Un tema che già è chiaramente emerso è quella dell’organizzazione e della gestione del Piano. Sempre nell’intervento già richiamato Carlo Trigilia poneva alcune questioni fondamentali su una possibile, auspicabile, struttura tecnica centrale. Ma d’altra parte è difficile immaginare che poi il Piano possa essere realizzato senza il coinvolgimento nell’attuazione da parte delle amministrazioni ordinarie. E da questo punto di vista appare assolutamente condivisibile l’iniziativa del Forum disuguaglianze diversità per sollecitare un forte e rapido rinnovamento e potenziamento delle amministrazioni ordinarie. Ricordiamo che negli ultimi dieci anni il personale degli enti territoriali si è ridotto di circa un quinto a causa dei blocchi del turnover, e del 28% nel Mezzogiorno. La sua età media è molto elevata: al Sud 4 dipendenti dei comuni hanno più di 50 anni e solo 1 su 5 ha la laurea. Senza una grande operazione di potenziamento amministrativo, difficilmente l’operazione potrà essere coronata dal successo. Bisognerà quadrare il cerchio fra un centro finalmente in grado di disegnare una prospettiva unitaria di lungo periodo, e le amministrazioni sul territorio in grado di dargli progressivamente vita.

Questo porta a un ulteriore elemento, ancora più importante. Nel Piano, allo stadio attuale, non ci sono le città. Certo, molti interventi, dalla mobilità sostenibile all’efficientamento energetico degli edifici pubblici, non potranno che avere una ricaduta sulle aree urbane. L’Anci ha presentato nella sua recente assemblea un articolato documento, sulla base del quale ha selezionato alcuni progetti che sono stati inviati al governo. Ma senza un disegno più unitario dello sviluppo delle città, senza una visione complessiva del loro futuro, il loro impatto rischia di essere parziale. Il futuro del Paese, come in tutte le economie avanzate, si giocherà moltissimo nelle sue città.

Questo vale a maggior ragione per la Capitale: è davvero difficile disegnare un programma di interventi per l’intero Paese senza interrogarsi sul ruolo che Roma potrà svolgere, e sugli ostacoli da rimuovere e le condizioni da creare affinché si possa concretizzare. L’Italia trascura da tempo le difficoltà di Roma; le ha quasi derubricate a una questione locale: contrariamente a quello che succede in Germania e in Spagna, dove Berlino e Madrid sono centrali nelle grandi politiche nazionali; e ancor più in Francia e nel Regno Unito, dove c’è un problema opposto di eccesso di concentrazione di interesse e di investimento sulle due maggiori città. In nessun Paese europeo c’è stata nell’ultimo ventennio un’accettazione così supina delle difficoltà della Capitale, una rassegnazione al suo degrado, al suo ridimensionamento. In qualche italiano più rancoroso, quasi con malcelata soddisfazione. Non a caso questo in Italia ha coinciso con un periodo di pulsioni localistiche e regionalistiche, ben al di là delle opportune autonomie, utili e necessarie specie in un Paese così differenziato come l’Italia. Come se rafforzare Roma togliesse qualcosa agli altri territori; come se indebolirla rafforzasse gli altri capoluoghi; come se fosse preferibile un Paese acefalo, senza una città simbolica della sua unità, senza una dimensione nazionale.

“Il Mulino” ha dedicato a Roma una sezione del suo fascicolo 2 del 2019, che è stata anche presentata e discussa in incontri romani; poi ha pubblicato un intervento (a libero accesso) di Marco Simoni sugli stessi temi. Non mancano riflessioni recenti più ampie sulle “questioni romane”, dal bel libro di ricostruzione storica di Vittorio Emiliani pubblicato dal “Mulino” nel 2018, al fantastico lavoro di indagine sulla geografia sociale metropolitana di Lelo, Monni e Tomassi al recentissimo libro di Walter Tocci, da pochi giorni in libreria.

Come documenta il quotidiano “Il Messaggero” le forze politiche romane (prima che arrivi la prossima campagna elettorale, necessariamente divisiva) stanno provando a concordare alcuni grandi progetti destinati a svilupparsi nel tempo, quale che sia il colore dell’amministrazione. Basta guardare alle grandi capitali europee per coglierne con immediatezza i grandi temi. A partire dagli indispensabili e assai rilevanti interventi sulla mobilità (che potrebbe essere progressivamente radicalmente ridisegnata, come si sta facendo a Parigi e a Barcellona), possibili anche nelle nostre città, come documenta da anni appassionatamente e con notevole qualità tecnica Legambiente. Alla paziente ricucitura socio-economica delle sue periferie, anche puntando con decisione sul terzo settore, su nuovi poli di aggregazione specie giovanile. Al rafforzamento del suo impareggiabile patrimonio storico-artistico per farne un volano di decine di migliaia di posti di lavoro nell’economia della cultura e della conoscenza. Alla riconversione verde, circolare e imprenditoriale dei suoi rifiuti, e al ripensamento delle sue politiche per l’accoglienza turistica, magari guardando con attenzione alla recente iniziativa di Lisbona di trasformare parte delle abitazioni per turisti in case per i residenti ad affitto concordato, o quella di Berlino di intervenire sugli affitti troppo alti. Al potenziamento del suo sistema dell’istruzione superiore (“La Sapienza” ha perso un quinto dei suoi studenti negli ultimi dieci anni): per farne un polo di dimensione internazionale per gli studenti e un centro di ricerca, sperimentazione e diffusione di tecnologie per le nuove imprese, romane e italiane. Su questo proprio Simoni e Tocci hanno avanzato, sempre sulle colonne del “Messaggero” una interessante proposta di realizzare a Roma un nuovo “politecnico”. La formulazione piuttosto generale dell’idea ha suscitato una interessante discussione sui social network, nella quale sono stati espressi comprensibili timori sui possibili rapporti fra questo “politecnico” e il sistema universitario. Una discussione che merita di continuare in forme più strutturate. L’articolo ha avuto comunque l’indubbio merito di porre il tema della ricerca e dalla conoscenza al centro del futuro della Capitale.

Sia consentito esprimere una valutazione finale piuttosto netta. Il rilancio dell’Italia e di Roma non si ottiene disegnando un Piano solo per linee settoriali. Si può costruire solo quando le missioni si incrociano con i luoghi; quando l’attuazione e la cura dei progetti è affidata – come non può non essere per tanti versi – agli amministratori cittadini; quando la loro somma disegna un quadro più coerente; quando ciascun progetto ha tempi e obiettivi precisi, verificabili dai cittadini nella loro vita quotidiana. E così crea progressivamente fiducia in loro, che vedono la propria qualità di vita incominciare a migliorare, e cambia le aspettative degli imprenditori, inducendoli a mettersi in gioco, ad investire. Un Piano per la Nuova Generazione è anche una grande operazione di ricostruzione di un sentimento e di una speranza nazionale. E anche per questo è essenziale che la Capitale torni ad essere una delle grandi immagini positive del Paese, in cui tornare ad avere il piacere di rispecchiarci tutti insieme.

[Questo articolo approfondisce e rielabroa un intervento pubblicato in precedenza sul quotdiano "Il Messaggero"]