Oggi si è avuta notizia della morte di Arrigo Levi. Grande amico del Mulino, socio dell'Associazione dal 1968, Arrigo ha partecipato attivamente alla vita del gruppo, sostenendone le iniziative e portando idee e argomenti. Per ricordarlo, ripubblichiamo un'intervista che gli fece nel 2011 Piero Ignazi, uscita sul n. 2 della rivista di quell'anno.

Come di consueto, l'intervista è preceduta da una breve nota biografica, che non eliminiamo perché ci sembra utile a inquadrare la persona e i suoi tanti interessi.

Arrigo Levi è quello che possiamo definire un testimone del Novecento. Nato a Modena nel 1926 da un’agiata famiglia ebraica, conosce ben presto le tragedie del secolo. Le leggi razziali obbligano la famiglia a espatriare in Argentina. A Buenos Aires Levi scopre la passione politica e quella giornalistica. Appena rientrato in Italia, dopo aver accarezzato l’idea di intraprendere la carriera universitaria, si dedica al giornalismo. Le sue collaborazioni si interrompono presto, poiché parte volontario per difendere Israele nella guerra del 1948. Una volta tornato, si sposta a Londra, dove collabora con la Bbc e, allo stesso tempo, con alcuni quotidiani italiani.

Nel 1953 rientra in Italia e sviluppa appieno la propria carriera giornalistica. Corrispondente del «Corriere della Sera» e poi della «Stampa» da Mosca dal 1960 al 1966, negli anni del disgelo, torna quindi in Italia e conduce per due anni il telegiornale Rai. In quel periodo commenta in prima persona eventi di grande intensità, come la guerra dei Sei giorni, nel 1967, e l’invasione di Praga, nel 1968. In seguito, dirige «La Stampa» e collabora ai maggiori quotidiani italiani, oltre che al «Time».

A partire dal 1998 è consigliere del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi; dal 2006, svolge le stesse funzioni per il presidente Giorgio Napolitano. La sua dimensione internazionale e la sua esperienza da protagonista della carta stampata e della televisione fanno di Levi una personalità dallo sguardo ampio, che si dispiega nel tempo e nello spazio.

Dalla natia Modena ti sei spostato in molti Paesi, dall’Argentina a Israele, dall’Inghilterra all’Unione Sovietica. Questo muoversi nello spazio ti ha permesso di acquisire una dimensione cosmopolita?

In realtà sono stato più influenzato da una dimensione temporale che da una dimensione spaziale. Per anni mi sono interessato di studi strategici – ho fatto parte dell’International Institute of Strategic Studies di Londra – e mi sono reso conto rapidamente di vivere in un’era del tutto nuova: per la prima volta c’era la possibilità che le guerre distruggessero il genere umano. Non c’era mai stata a disposizione dell’uomo una tale potenza distruttrice. Ma devo ammettere che dopo la «paura della bomba» degli anni Cinquanta, a seguito del primo accordo tra Usa e Urss per la messa al bando degli esperimenti nucleari, l’interesse dell’opinione pubblica sul pericolo della guerra atomica è diminuito verticalmente. E oggi è un tema del tutto fuori moda.

A proposito di conflitti, anche se non hai partecipato alla seconda guerra mondiale, nel 1948 sei andato a combattere in Israele.

Sì, andai perché avevo la sensazione che i seicentomila ebrei che avevano fondato Israele rischiassero la vita. E vi era poi un sottile senso di colpa per essere scampato alla Shoah andando in America Latina. Anche se non sono mai stato sionista – si poteva essere ebrei senza bisogno di andare in Israele – una volta rientrato in Italia, nel 1949, pensavo poi di fare ritorno in Israele. Ma 150 sterline regalatemi da un parente per andare tre mesi a Londra mi fecero cambiare idea. Mi attirava molto l’esperienza del Welfare State laburista. Ero di simpatie socialisteggianti allora.

E così a Londra hai cominciato a lavorare alla Bbc. Che differenza hai poi trovato con la stampa e la televisione italiane quando sei tornato?

Quella era una grande scuola di giornalismo. La Bbc e la stampa inglese rimangono un modello. In particolare la Bbc era un modello di televisione educativa e formativa che in parte venne recepito anche in Italia, nei primi anni.

Sei stato in televisione alla fine degli anni Sessanta. Che ricordi hai?

La gestione di Bernabei e Fabiani era improntata a grande professionalità. Io entrai come esperto di politica estera e mi trovai a condurre il telegiornale – una novità assoluta in quanto le notizie erano sempre lette da uno speaker – per due eventi eccezionali, la guerra dei Sei giorni del 1967 e l’occupazione di Praga dell’agosto 1968. Ero riluttante a farlo perché ero emotivamente coinvolto nella guerra dei Sei giorni, ma insistettero talmente che alla fine cedetti. E non andò male.

Dopo quella esperienza hai continuato a lavorare per la televisione?

Sì, ho curato vari servizi di attualità e politica internazionale sia con la Rai sia con il gruppo Fininvest, quando Berlusconi non era ancora entrato in politica. Di televisione ne ho fatta in varie occasioni fino agli anni Novanta, con programmi anche innovativi. La televisione ha grande fascino per me: ha il potere dell’immediatezza che la carta stampata non può avere. Offre al giornalista un’immediatezza e una carica emotiva diverse da quelle che ti offre la carta stampata. Però l’articolo poi ti permette degli approfondimenti di pensiero.

Qual è il servizio o il programma che ti ha più appassionato?

Gli Archivi del Cremlino è stato forse il programma televisivo più affascinante che abbia mai fatto, anche perché per la prima volta si aprirono, seppure in parte, gli archivi sovietici. Non al puto da poter avere i filmati del XX Congresso, questi ce li negarono. Avemmo invece accesso al patrimonio dei grandi filmati che nascevano dalla passione per il film dell’ultimo zar. In quello della sua incoronazione appare un certo numero di reduci delle patrie battaglie, e tra questi c’era un sopravvissuto alla battaglia di Borodino, che aveva 102 anni, solo 5 anni meno di Napoleone. È l’uomo più antico che sia mai stato ripreso.

A ogni modo sei stato soprattutto un giornalista della carta stampata: come è cambiata in tutti questi anni?

La stampa forse è cambiata meno di quello che si può immaginare. Certo, oggi dedica troppo spazio alla vita politica romana e troppo poco alla realtà della provincia italiana. Quando io facevo il giornalista, si usava, sulle orme del famoso libro di Guido Piovene, Viaggio in Italia, fare delle inchieste regionali. Ti davano due o tre settimane di tempo, così potevi approfondire la realtà locale molto bene.

Tuttavia il più grande servizio giornalistico l’ho condotto al Quirinale, come consigliere di Ciampi, perché ero uno dei preparatori del suo viaggio nelle 104 province italiane. Ho fatto molti incontri interessanti. Ad esempio, vescovi di grande qualità, diversi uno dall’altro, e prefetti altrettanto preparati ma molto «regolari», molto simili tra loro.

E oggi come giudichi i giornali?

Ecco, questo approfondimento manca: quella che si ha dalle prime pagine è una visione un po’ distorta della realtà italiana, anche per via della «rotocalchizzazione» dei quotidiani. Questo nuovo indirizzo, che ha inizio con un direttore del «Corriere della Sera» tra i più bravi che abbiano mai avuto in via Solferino, ha portato a dedicare le prime sei-sette-otto pagine a un solo grande evento. È una risposta alla minaccia dei settimanali e della televisione, perché offre un approfondimento che la televisione non può proporre. Naturalmente questo è consentito dal passaggio dei giornali da 32 pagine al massimo a 100 e più; oggi i giornali sono dunque incomparabilmente più ampi nella copertura degli eventi mondiali, delle curiosità, della cultura. Questa espansione, però, finisce per distorcere l’inquadratura della realtà.

Non trovi ci sia un’enfasi eccessiva nella copertura della politica «romana»?

La copertura internazionale è sempre stata un po’ scadente, a parte alcune eccezioni, come «Il Sole - 24 Ore» e «L’Osservatore romano». Comunque sì, c’è una certa provincializzazione del giornalismo e c’è soprattutto uno stato d’animo ossessivo nella vita politica italiana, che si trasmette poi ai giornali, o che i giornali trasmettono alla vita politica italiana. Questo è senza precedenti nella storia del giornalismo italiano dell’epoca repubblicana. L’ossessione per alcuni fatti e per alcuni personaggi è anche esasperata da personalità forti, amate o odiate, della politica italiana.

Questa concentrazione quasi ossessiva su alcuni leader forse esisteva anche nel passato. Anche allora c’erano forti personalità.

No, era un altro mondo. La classe dirigente della prima Repubblica aveva, sia da una parte sia dall’altra della barricata politica, un’idea, una vocazione, una visione della politica come dovere. E non dimentichiamo che era stata capace di varare la Costituzione nel giro di un anno. Personalità come Togliatti o De Gasperi, o Nenni e Saragat, sono incomparabili con i leader politici attuali.

Rimanendo su giornalismo e politica, non trovi che ci sia una sorta di eccessiva deferenza, e anche una eccessiva familiarità, nei confronti dei politici da parte dei giornalisti?

È una domanda curiosa. Quando io sono diventato direttore della «Stampa», nel 1973, la regola che Alberto Ronchey mi diede, avallata da Gianni Agnelli in qualità di proprietario, era: andare a Roma soltanto una volta all’anno e, quella volta, incontrare un po’ tutti i politici; ma andare una sola volta all’anno. Un’altra regola era: non avere rapporti sociali con la società torinese. L’unica casa in cui potevo andare tranquillamente a pranzo era casa Agnelli, più altre due. E io non andai mai altrove che in quelle tre case.

Una regola monastica…

Era una regola molto rigida, però andava benissimo, perché in realtà il tempo non c’era; e poi ti permetteva effettivamente di dire di no, anche alla Fiat… Avendo però come unico referente l’avvocato Agnelli, non la Fiat.

In questo modo si evitava quella commistione continua tra la vita del giornalista e quella del politico. Da alcuni decenni il giornalista è una sorta di compagno di strada del politico, non è più un interlocutore, una controparte.

È possibile che si finisca per creare una complicità…

Un tempo c’era questa frequentazione così assidua tra politici e giornalisti?

C’era una vita politica talmente tranquilla! Se penso che quando sono tornato da Londra, nel ’59, il «Corriere della Sera» riassumeva tutta la realtà politica del giorno in un pezzo di Aldo Airoldi… In una colonna e mezzo, in quello che era chiamato «il pastone», diceva tutto. «La Stampa» aveva due firme per coprire la materia, Enzo Forcella e Vittorio Gorresio, e lì finiva. Ma come fai a paragonare un mondo politico così complesso come quello di oggi con l’altro, che aveva una struttura così rigida e chiara? La Dc da una parte, il Pci dall’altra, e poi i liberali, i socialisti, i socialdemocratici, i repubblicani, lì finiva. Erano cinque persone…

Vedi quindi un punto di svolta nel sistema partitico dal ’94 in poi…

Oltre al cambiamento del sistema partitico c’è un’evoluzione nei giornali, che sono passati, come dicevamo prima, dalle 28-32 pagine a un centinaio. Per cui ti puoi «sfogare», puoi mandare sullo stesso avvenimento cinque giornalisti che sentono i cinque protagonisti; e poi ognuno può specializzarsi su un politico. Certo, questo comporta una specie di complicità, o meglio un eccesso di identificazione con l’oggetto. Il vero giornalista deve invece mantenere un certo distacco.

Qual è allora il tuo giudizio complessivo sull’indipendenza dei giornalisti?

L’indipendenza è ancora notevole. Negli editoriali c’è una grande varietà di opinioni critiche, anzi, direi più polarizzate perfino di quanto non lo fossero una volta. Ci sono visioni estremiste della realtà, aberranti in un certo senso, a destra e a sinistra; e poi c’è in mezzo una serie di giornalisti che ancora è in grado di narrare con distacco, di fare domande anche scomode, di scrivere editoriali «autonomi». Poi ci sono quelli più bravi e quelli che lo sono meno, ci sono quelli che si vogliono accattivare di più le simpatie di una parte o che hanno dei sentimenti di parte. Però ricordiamo quel giornalista americano che diceva: «Non dobbiamo aspettarci dai giornalisti la verità o l’equilibrio, dobbiamo aspettarci che siano molti i giornali!». Anche in Italia questa pluralità rimane. Se così non fosse Berlusconi non si arrabbierebbe tanto, non cercherebbe di mettere a tacere un certo numero di giornalisti. Il caso Biagi insegna per tutti. Ma poi in realtà non ce la fa sempre. Insomma, la semplificazione internazionale dei mass-media controllati da una persona sola non regge alla prova dei fatti, vivaddio.

Ritorniamo all’Unione Sovietica. Tu hai avuto lunghi periodi di frequentazione di quel Paese ed eri convinto fosse inevitabile che le cose cambiassero, che non potessero andare avanti così…

Sì, sapevamo che sarebbero cambiate, ma non sapevamo come: in modo brusco, violento, dolce, progressivo, conflittuale?

Ma questa è una consapevolezza che avevi già all’epoca di Kruščëv, quando sei andato la prima volta?

Sì. Kruščëv fu quello che aprì il dibattito sulla necessità del cambiamento. La cosa curiosa è che allora sapevamo molto sulla fragilità e sulle «linee di crisi del modello staliniano» (Patterns of Crisis of the Stalin’s Model fu il titolo di un mio ciclo di lezioni alla Johns Hopkins); ne sapevamo di più dei capi sovietici. Quando arrivò Gorbačëv e disse: «Così non si può andare avanti», «Tak prodoljat’ niel’zià», anche lui non sapeva poi bene come andare avanti. Il vertice del partito acquisiva conoscenze che erano mediate, falsate da tutti quei servitori di partito che cercavano di inviare le notizie migliori, riprendendo la tradizione dei villaggi Potëmkin (quel villaggio-modello completamente falso, con le sole facciate, che veniva fatto vedere allo zar in visita nel Paese). Non avevamo dubbi sul fatto che il sistema non avrebbe retto.

Nel mio Viaggio fra gli economisti, nel 1971, ho incontrato fior di economisti sovietici già profondamente convinti della necessità di un cambiamento radicale; c’era già la consapevolezza della non-funzionalità di un sistema di economia statale pianificato.

C’è una linea di pensiero che sostiene che il crollo del sistema sovietico sia stato la causa della corsa al riarmo intrapresa da Ronald Reagan…

No, è solo un fattore che contribuisce. Certo, l’Unione Sovietica ha dovuto concentrare sulla spesa militare una percentuale del prodotto interno lordo che non è paragonabile a quella che investì l’America. Lo sforzo era al di sopra delle sue capacità e comportò squilibri molto forti, tali da condurre Gorbačëv a dire che così non si poteva andare avanti.

Del resto, quando Trapeznikov, il direttore del Comitato Scienza e tecnica dell’Accademia delle Scienze, andò in America, più o meno nel periodo in cui vi era andato Kruščëv, al ritorno scrisse un articolo dicendo: «Attenzione, la rivoluzione della Bolshoi Chimia, della grande chimica – che Kruščëv vantava – è indietro di una generazione, perché in America c’è la rivoluzione dei computer. Attenzione, siamo terribilmente in ritardo». Trapeznikov scriveva in epoca krusceviana: venti anni dopo, ha ripubblicato lo stesso identico articolo sulla «Pravda». Quindi non è che fossero inconsapevoli, a un certo livello.

Ma non potevano fare niente…

Lo potevano anche dire, in certe fasi e in certe sedi, ma non potevano cambiare la linea del partito. I primi discorsi di Gorbačëv sono curiosi: noi li leggemmo con un’attenzione quasi patologica e scoprimmo che erano discorsi fatti a due mani, perché c’erano tentativi di apertura ma anche frasi scritte chiaramente sulla linea tradizionale, da un’altra mano.

Ritornando indietro, perché fallisce Kruščëv?

Kruščëv ci credeva molto meno di Gorbačëv. Era ancora trionfalistico. Il piano con cui si presentò al XXI Congresso doveva essere, come disse, «il piano che ci porterà a superare l’America». E la battuta corrente a Mosca era: «Oddio, così si accorgeranno che pezza nel sedere abbiamo!». Perché questa era la realtà. Ma Kruščëv ci credeva ancora. Il suo piano quinquennale era un piano di esaltazione.

Però vanno nello spazio…

Sì, certo, possono arrivare nello spazio perché i missili avevano fini militari; lo spazio è un sottoprodotto della spesa militare in Russia. E lo è, in un certo senso, anche in America. Io ero a Mosca il giorno in cui Gagarin venne lanciato nello spazio. L’entusiasmo del popolo era immenso… Era una bella giornata di sole, di primavera… Però il discorso di Kruščëv di quel giorno non fu solo trionfalistico, comprendeva anche la denuncia dell’arretratezza. Del resto erano giornate in cui a Mosca si passava dall’inverno all’estate, il momento in cui non si trovava niente nei negozi, a cominciare dai prodotti alimentari più semplici. L’economia era in sofferenza estrema. La gente questo lo sapeva, e Kruščëv sapeva che la gente sapeva. Infatti il suo discorso sull’impresa di Gagarin fu un discorso in cui si esaltava l’uomo sovietico che per primo era andato nello spazio, ma allo stesso tempo si affermava che sulla Terra le cose non andavano bene. Lo scrissi anch’io, e per questo venni attaccato dalla stampa sovietica con un articolo che mi accusava di essere come quegli animali che grufolano, col grugno nella spazzatura, e non alzano lo sguardo al cielo dell’Unione Sovietica ecc. Il fatto è che allora l’economia agricola sovietica era sorretta da quella minuscola percentuale di terreno dei Kolkhoz affidata alla coltura privata che, pur essendo l’1% della terra totale, produceva il 12% della produzione agricola sovietica.

Qual è il futuro della Russia, secondo te?

Il mio ultimo libro sulla Russia è basato sulla tesi che sia un Paese occidentale, e non uno asiatico.

Basterebbe dire che abbiamo letto gli stessi libri e ascoltato gli stessi musicisti…

Sì… io ho fiducia nella Russia di domani, nel fatto che riconosca finalmente di essere occidentale, e che la sua sicurezza e il suo progresso dipendano dall’essere Occidente. Vedi, io ero in Russia quando ci furono le prime elezioni libere, come membro di una commissione dell’Unione europea per vigilare sullo svolgimento di quelle elezioni. Mentre altri andavano in giro, io ero rimasto a Mosca a seguire i dibattiti alla Duma. Era una cosa affascinante, veramente affascinante questo senso di libertà: «Finalmente parliamo! Finalmente diciamo quello che pensiamo!».

Certo, ora non ci sono più controparti «liberali» come allora era il partito di Jablinski. Oggi è difficile trovare degli interlocutori validi in Russia.

Forse perché c’è l’ipoteca putiniana…

Beh sì, ci sono diverse letture sull’evoluzione della Russia. In quel Paese c’è un dibattito molto vivace, e più aperto di quello che si pensa; però il futuro è pieno di incognite. La storia è lunga. Io non avrei mai immaginato in vita mia di vedere la fine del comunismo sovietico. E l’ho visto. Mentre ero sicuro che avrei visto la fine della crisi israelo-palestinese e ora, a 84 anni, non sono sicuro di vivere abbastanza a lungo per vedere la pace fra Israele e i palestinesi…

Speriamo arrivi da un giorno all’altro…

Non so, vi sono stati errori, dall’una e dall’altra parte, che sembrano fatali, così da impedire la pace. Invece, da molti anni, tutte le analisi di opinione, sia da parte palestinese sia da parte israeliana, dimostrano che c’è una netta maggioranza favorevole ai due Stati. È un caso in cui le minoranze sono riuscite a bloccare tutto. Da parte israeliana in questo momento c’è una minoranza che blocca ogni progresso negoziale, e lo stesso accade anche tra i palestinesi, dove una componente rifiuta la pace con Israele. Ad ogni modo, speriamo che le cose cambino.