Se c’è qualcuno che ha posto il lavoro al centro della propria attività di studioso e ricercatore questi è Luciano Gallino. Una ragione in più per porgli qualche domanda in un momento che vede le varie forme di lavoro, in Italia ma non solo, pienamente coinvolte nella grande crisi di sistema di cui il dato economico e finanziario è solo un aspetto, per quanto rilevante.
Luciano Gallino, nato a Torino nel 1927, si è impegnato nell’accademia – è considerato tra gli artefici della istituzionalizzazione della sociologia italiana nel dopoguerra e, tra l’altro, da oltre quarant’anni è direttore dei «Quaderni di Sociologia» – ma anche molto al di fuori di essa. Chi ha studiato sociologia ne ha probabilmente letto i lavori, o almeno, soprattutto nell’era pre-internettiana, ha utilizzato il suo grande Dizionario di Sociologia (Utet). È considerato tra i maggiori esperti del rapporto tra nuove tecnologie e formazione, nonché delle loro applicazioni nel mercato del lavoro. La sua attività di studioso lo ha portato negli anni a pubblicare oltre una trentina di volumi, grazie ai quali, negli ultimi tempi, è spesso in giro per l’Italia per presentazioni e dibattiti.
I suoi editoriali si possono leggere sulle pagine della «Repubblica». Tra i suoi lavori, vanno ricordati almeno Questioni di sociologia (Comunità, 1969), Il lavoro e il suo doppio: seconda occupazione e politiche del lavoro in Italia (a cura di, Il Mulino, 1985), L’attore sociale: biologia, cultura e intelligenza artificiale (Einaudi, 1987), Se tre milioni vi sembran pochi. Sui modi per combattere la disoccupazione in Italia (Einaudi, 1998), Il costo umano della flessibilità (Laterza, 2001), L’impresa irresponsabile (Einaudi, 2005) e, fra gli ultimi, Finanzcapitalismo. La civiltà del denaro in crisi (Einaudi, 2011).
La carriera sociologica di Luciano Gallino ha inizio alla Olivetti, quando, nel 1956, viene chiamato all’Ufficio studi, allora diretto da Alessandro Pizzorno. Proprio da quell’esperienza, che nel corso della sua carriera Gallino ha richiamato più volte, abbiamo preso le mosse.
Vorrei partire dal lavoro che lei svolse quando venne chiamato a Ivrea da Adriano Olivetti. Rileggere oggi alcune sue considerazioni su quell’esperienza raccolte negli anni in diversi libri ne mette in luce una straordinaria vitalità e modernità, per molti assimilabile quasi a un’utopia. In realtà la vicenda particolarissima di Olivetti ha dato frutti importanti sia sul fronte delle responsabilità dell’impresa sia su quello dei risultati economici. Da questo punto di vista, che cosa secondo lei, concretamente, al di là di una certa mitizzazione, potrebbe essere ripreso di quel modello?
Qualcosa ci può essere certamente, seppure all’interno di un sistema capitalistico che è così mutato. Per un’impresa, anche per una grande impresa com’era la Olivetti quando vi entrai a metà degli anni Cinquanta, con quasi trentamila dipendenti tra l’Italia e l’estero, è difficile comportarsi in modo totalmente diverso rispetto alle altre. Però la differenza non sta tanto nel mondo che è cambiato – questo logoro ritornello che ci viene riproposto in ogni momento – ma risiede nella concezione stessa dell’impresa. Adriano Olivetti soleva dire, lo ha scritto in diverse occasioni, che la fabbrica – lui la chiamava sempre così, «la fabbrica» – chiede molto alle famiglie, ai dipendenti, alla comunità in termini di fatica, intelligenza, tempo, e pertanto ha il dovere di restituire molto. Quest’idea di restituzione di qualcosa che viene preso, che viene chiesto e preteso dalla fabbrica, è totalmente scomparsa dall’orizzonte della cultura imprenditoriale, manageriale e politica di oggi. Al contrario, è passata l’idea secondo cui è il lavoratore che deve sentirsi in debito perché ha un lavoro.
Un’idea rivoluzionaria, vista oggi, anche perché appare in netto contrasto con un atteggiamento ormai largamente diffuso.
Sì, certo. Anche perché allora la «restituzione» non era, come dire, una sorta di astratto impegno morale come quello che si può trovare nei codici etici delle imprese di oggi. Ma si traduceva in salari elevati, scuole, asili, ambulatori, biblioteche, musei, servizi sociali di ogni genere, colonie – tra l’altro progettate e costruite da grandi architetti. E sia il proprietario – Adriano non era il solo proprietario, anche se certamente uno dei principali azionisti – sia il direttore generale o il direttore commerciale non ricevevano compensi dell’ordine di trecento o quattrocento volte il salario di un operaio. Come ho compreso successivamente, quando ho studiato in dettaglio gli sviluppi della Olivetti tra il ’45 e il ’59, la retribuzione di quei dirigenti non superava il rapporto di uno a venti rispetto a quella di un operaio.
Su questo punto, lei stesso in più occasioni ha portato l’esempio del rapporto tra lo stipendio di Valletta e quello di un operaio Fiat.
Sì, infatti, valeva anche per un capo importante com’era Valletta, la cui retribuzione, alla fine, poteva forse essere di venti volte superiore. Ma certamente non di trecento o quattrocento. Da allora, la concezione dell’impresa contemporanea è totalmente mutata, in base anche a precise teorie economiche. Dagli anni Ottanta si è affermata la dottrina per cui il primo dovere di un alto dirigente è quello di massimizzare il valore per gli azionisti. Tutti gli altri, i dipendenti in primo luogo, i fornitori, la comunità locale, i creditori, eccetera…, tutti questi passano in secondo piano e restano soltanto come residuali «altri portatori di interessi». I risultati poi però si vedono. Quando di fronte a queste osservazioni la politica non fa altro che dire che il mondo è cambiato, che c’è la globalizzazione, il progresso tecnologico, si pone del tutto fuori dal tempo storico. Perché anche la Olivetti, a suo modo, era fortemente globalizzata: c’erano centinaia di telescriventi che collegavano l’impresa con tutto il mondo, con almeno 110 differenti Paesi. I prezzi e i dati sulle vendite arrivavano a Ivrea in tempo reale. La Olivetti produceva in sei o sette Paesi del mondo, ma vendeva in più di cento le sue macchine da scrivere, le sue telescriventi e le macchine da calcolo, di cui era leader mondiale.
E dunque, tornando alla domanda iniziale sulla possibilità di riconsiderare quel modello?
Dunque occorrerebbe ripensare la teoria dell’impresa, i compensi manageriali, la distribuzione del reddito, e altre cose del genere che oggi paiono di estrema sinistra. Non sono cose superate dai tempi. Piuttosto sono le dottrine economiche affermatesi da allora in poi che mostrano la corda. E così viene da chiedersi: «Ma allora, dov’è stato l’avanzamento, dov’è stato il progresso?».
[Questa intervista a Luciano Gallino, raccolta da Bruno Simili, è stata pubblicata su "il Mulino" n. 3/2012, pp. 477-485. Qui è possibile acquistare la versione integrale]
Riproduzione riservata