Domina lo spaesamento nel valutare la soluzione della crisi governativa. Archiviato rapidamente il sollievo per avere evitato una campagna elettorale a base di battaglie sul presunto scontro élite vs. popolo (con il controcanto di altrettanto presunte alleanze repubblicane), non si sa bene che dire del governo che entrerà in carica. Non che manchino le intemerate sui fronti opposti, ma hanno l’aria più che altro di costituire un prolungamento della campagna elettorale che non finisce mai (del resto domenica 10 giugno si voterà di nuovo). Le prime valutazioni da fare sono altre.

Gli osservatori più attenti si concentrano sul problema delle relazioni internazionali, che non sono soltanto (o non dovrebbero essere) un ambito per pochi specialisti. In un vecchio film si sarebbero chiamati giochi di potere, e lo sono in un mondo niente affatto pacificato come quello di oggi. L’Italia è un Paese fragile da tanti punti di vista, soprattutto perché a causa del suo enorme debito pubblico dipende il sostegno di una rete internazionale. C’è dunque da aspettarsi un contesto in cui, da parte di molti attori, si giocherà a usare il nuovo governo ai propri fini, che sono diversi per ciascuno (tanto per cominciare: sostenere o mettere in crisi il sistema europeo e come farlo). Chi resterà deluso, mettiamola così, proverà a farci pagare un prezzo.

Ora il nuovo governo non ha grandi margini di manovra, perché deve osservare un “contratto” che implica spesa pubblica in misura significativa; o addirittura enorme, se fosse applicato sino in fondo: questo significa offrire il fianco a ogni possibile attacco speculativo, che non è così difficile da attivare visti i tempi in cui viviamo. E che ogni attacco speculativo abbia costi che si ripercuotono in maniera più o meno pesante sui cittadini ormai dovrebbe essere sufficientemente noto.

In secondo luogo il governo Conte-Di Maio-Salvini (ormai tutto è tripolare…) deve sbrigarsela con due scadenze. La prima è dare messaggi che confermino che il “cambiamento” inizia a tutto gas. Una necessità impellente di tutte le autoproclamate “svolte” che in genere porta, però, più guai che successi. Il Movimento 5 Stelle alla prova del governo nazionale ha bisogno di mettere all’incasso qualcosa: vada per la storiella dei vitalizi (un atto per lo più simbolico che rischia di arenarsi di fronte alle verifiche attuate dal sistema giuridico), ma questioni come il reddito di cittadinanza o la riforma della legge Fornero sono un’altra cosa: implicano un lavoro complesso di ripensamento sistemico e, soprattutto, molti soldi pubblici. Certo, si pensa che basti intanto far vedere che “ci si lavora”, non fosse che potrebbe bastare questo a creare tensioni sui mercati che finanziano il nostro debito pubblico.

Matteo Salvini può concentrarsi sulla storia dei rimpatri dei clandestini, cosa più semplice, perché in fin dei conti non inventa nulla, sempre ne sono stati fatti e non serve nulla di nuovo: basta suonare un po’ di più la grancassa per pubblicizzare quelli che si faranno adesso. Però se i numeri dei promessi rimpatri forzosi dovessero essere così consistenti quanto la propaganda leghista ha lasciato intendere, costeranno molto (si veda ad esempio l’articolo di Fiorenza Sarzanini sul “Corriere” di oggi) e di nuovo questo creerà problemi non piccoli di cassa allo Stato italiano.

La seconda scadenza riguarda il consolidamento del consenso non fra gli elettori, che al solito si pensa di raggiungere con la propaganda e coi mezzi di cui sopra, ma fra le classi dirigenti del Paese. La Lega ha una tradizione in questo campo, ma anche i 5 Stelle ci si sono applicati. Del resto lo si è visto anche nella formazione di questo governo quando si è pescato fuori delle proprie fila fra figure che potevano essere portatrici di una loro autorevolezza. Qui accade come nella poesia di Goethe sul pescatore che la divinità del fiume attira nel suo gorgo: un po’ si sporse lui, un po’ lo tirò lei. Mostrare che si è disposti a far spazio a figure che la pubblica opinione possa considerare scelte “per merito” è qualcosa la cui utilità non sfugge ai nuovi governanti, che però hanno anche il problema di premiare i fedeli militanti delle varie ore della loro scalata al potere. Le scelte che adesso arriveranno fra nomine negli enti e nelle istituzioni e le posizioni di sottosegretario e viceministro ci diranno qualcosa di questa strategia “entrista” fra le élite sociali ed economiche.

Si tenga conto che anche queste non è che possono muoversi nel vuoto. È nel loro interesse, non certo meschino, che il Paese non vada alla rovina, mentre non sanno come tutelarsi appoggiandosi a opposizioni che sono chiaramente in affanno sia sul fronte del centro moderato sia a sinistra. È banale ricordare che così sono costrette a scherzare col fuoco, ma è onesto dire che hanno poche alternative: puntano, come sempre, a credere di poter condizionare il dilettantismo vaniloquente dei nuovi venuti e vedono nell’opera di contenimento svolta in questo senso dal Quirinale la prova che tutto sommato si può fare.

La realtà è che siamo in una condizione sospesa. Non è infatti chiaro se si è aperta una fase di ristrutturazione della distribuzione delle forze politiche, che progressivamente si stabilizzerà lasciando spazio a una loro maturazione, oppure se si è solo allontanato l’appuntamento con la sfida finale fra conati populistico-giacobini e la riformulazione di una classe dirigente politico-sociale degna di questo nome.

 

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