«Cari lavoratori, che cosa avete nel cuore?». Sono passati quasi cinquant’anni dalla notte di Natale del 1968, ma la domanda che papa Paolo VI rivolse agli operai del IV Centro siderurgico di Taranto (l’Italsider, oggi Ilva) resta lì, irriducibile, ad agitare la scena sociale italiana dopo il completamento della prima fase di vendita delle acciaierie.

A rilevare l’azienda commissariata dallo Stato e in amministrazione straordinaria la cordata Am Investco, composta dalla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal (85%) e dal Gruppo Marcegaglia (15%, ma al consorzio si unirà Banca Intesa prima del closing dell’operazione con alcune quote dell’azionista di minoranza). Il prezzo: un miliardo e 800 milioni di euro.

Che cos’hanno nel cuore i lavoratori dell’Ilva, a Taranto come a Genova? Certamente tanta paura del futuro, visto che i nuovi proprietari hanno annunciato fino a 6.000 esuberi, ridimensionando il numero solo dopo le pressioni esercitate dal ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda. La riduzione rimane, al momento, sulla carta, nelle dichiarazioni d’intenti della cordata Arcelor Mittal-Marcegaglia. Il ministro ha fatto riferimento all’«obbligo occupazionale», chiamando Am Investco ad adempierlo se vuol portare a buon fine l’acquisizione di un gruppo che, nel 2016, ha prodotto 5,6 milioni di tonnellate d’acciaio (la capacità massima è di 8 milioni) con 14 mila dipendenti in 15 stabilimenti (fonte: www.gruppoilva.com). L’Ilva ha già un accordo che contempla la cassa integrazione per 3.300 lavoratori (tetto massimo). «Il livello occupazionale – ha dichiarato Calenda – deve essere costituito da almeno 10 mila unità per l’intero periodo di riferimento del piano industriale».

Dopo aver ufficializzato l’accordo sul contratto d’affitto con obbligo di acquisto dei complessi aziendali, il consorzio Arcelor Mittal-Marcegaglia, ha «ricopiato la dichiarazione del ministro. I tagli scenderebbero così da 6.000 a 4.000, in un calcolo all’ingrosso. Cifra comunque non indolore e che, se da un lato potrebbe essere ammortizzata, secondo le prospettive disegnate dai commissari Ilva Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba, impiegando i lavoratori in esubero nelle opere di bonifica all’interno del complesso siderurgico tarantino, alle dipendenze ancora della gestione commissariale (bad company), dall’altro rimanda alle parole di papa Francesco pronunciate durante la visita pastorale allo stabilimento Ilva di Genova il 27 maggio scorso: «Nessun buon imprenditore ama licenziare la sua gente – no, chi pensa di risolvere il problema della sua impresa licenziando la gente non è un buon imprenditore, è un commerciante, oggi vende la sua gente, domani vende la propria dignità».

 

[L'articolo completo, pubblicato sul "Mulino" n. 4/17, pp. 648-656, è acquistabile qui]