La storia di Ilva dopo gli anni Settanta è un incrocio di improvvisazione politica, scontro istituzionale tra i poteri dello Stato e irresponsabilità diffuse. C’era un’alternativa ad ArcelorMittal?
ArcelorMittal si affacciò già nel 2014, insieme ad altre quattro cordate che presto si volatilizzarono. L’alternativa ad ArcelorMittal-Marcegaglia-Intesa (AmInvestCo) era rappresentata dalla cordata guidata da Jindal, con Cdp, Arvedi e il fondo Delfin (Acciaitalia). ArcelorMittal offrì 1,8 miliardi per l’acquisto, Acciaitalia 1,2. Jindal tentò un rilancio di prezzo a gara chiusa e, successivamente, acquisì lo stabilimento di Piombino. Chi sostiene che avrebbe rappresentato un’alternativa più solida è stato smentito proprio da quanto è poi accaduto a Piombino, dove tutt’ora si è alla ricerca di un nuovo acquirente.
L’accordo del 6 settembre 2018. In piena crisi di governo il ministro Calenda tentò un accordo, ma alcuni aspetti di merito e, soprattutto, le condizioni politiche attorno al tavolo negoziale non consentirono di andare fino in fondo. Dal governo Gentiloni si passò al Conte 1, che tentò per diversi mesi di invalidare la gara e ritardò ancora la discussione sul piano industriale e ambientale.
Il 6 settembre 2018 si arrivò all’accordo sindacale più significativo di tutta la vicenda, che prevedeva un piano ambientale, in parte poi portato avanti, per raggiungere i migliori standard ambientali della siderurgia a ciclo integrale europea, investimenti per la riqualificazione industriale, occupazione, per un totale di oltre 4 miliardi di investimenti.
Dopo le europee salta tutto. Alle elezioni europee di maggio 2019 il Movimento 5 Stelle va molto male, passando al 17,1% (dal 32,2% delle elezioni politiche del 2018) e avviando così la resa dei conti al suo interno, con il conseguente tentativo di recuperare popolarità compiendo alcuni passi indietro rispetto agli impegni presi e agli accordi sottoscritti. Pochi giorni dopo, in luglio, il governo Conte 1 approva il decreto per la rimozione dello scudo penale. Il 31 ottobre la Camera converte definitivamente in legge il cosiddetto decreto “Salva imprese” con la nuova maggioranza del Conte 2.
Da quando, il 5 novembre 2019, ArcelorMittal comunica l’intenzione di voler recedere il contratto di cessione, abbiamo monetizzato la presenza di un investitore che aveva già scelto di andar via e di minimizzare i suoi costi di uscita.
I segnali furono inequivocabili e lo dichiarammo apertamente: quando un gruppo industriale ritira i suoi migliori tecnici e i manager, poi deconsolida dal bilancio del gruppo proprio AmInvestCo Italia (che qualche sprovveduto salutò come una bella notizia) e ri-avoca a sé la struttura commerciale, come si fa a dichiarare che “da adesso la strada è tutta in discesa”, come fu detto da chi era al governo nel 2020? Eppure, mentre l’azienda chiariva le sue intenzioni, governo, Regione e Comune si mostravano sempre più ottimisti.
Lo Stato “ci metterà la faccia”: sono le parole dell’allora premier Conte all’incontro in Consiglio di fabbrica. In realtà, in preda alla pura improvvisazione populista, la situazione si aggravava. Da un lato, si utilizzava la retorica anti-multinazionale, dall’altro per totale insipienza si stringeva la corda delle varie clausole parasociali, al fine di assicurare proprio alla multinazionale una condizione di forza e di maggiore libertà in caso di contenzioso. Ma quando ci si occupa di industria bisogna lavorare molto per recuperare una stratificazione di errori pregressi ed evitare di aggiungerne altri. Per fare questo occorrono passione e competenza per l’industria, virtù rare in questi anni.
Da fine 2019 il Conte 2 inizia a parlare di “Stato al 60%” e minaccia “la causa del secolo”. A marzo 2020 i Commissari Ilva in amministrazione straordinaria, che avevano citato in giudizio ArcelorMittal (contro la rescissione del contratto) firmarono, sempre con ArcelorMittal, un accordo per superare l’impasse giudiziaria. Come si dice, andarono (per conto del governo) per bastonare la terribile multinazionale e dovettero mollare a essa ulteriori vantaggi.
Come sindacati ricevemmo il testo del loro accordo tramite il sindaco di Taranto. Era la consacrazione non solo dell’epilogo peggiore ma anche della presa in carico (pubblica) di tutti gli oneri. L’accordo, infatti, prevedeva lo slittamento delle scadenze dell’accordo del 2018 e tanta nuova cassa integrazione che prefigurava una “mezza Ilva” con forni elettrici, come ce ne sono già in Italia, definita “green” a scopo promozionale e senza una vera prospettiva di decarbonizzazione nel medio periodo. Complici lockdown e pandemia, riuscimmo a rispondere con uno sciopero di 24 ore solo a giugno. Intanto, ci si dimenticava che l’investitore, la terribile multinazionale che avrebbe dovuto pagare 1,8 miliardi solo di prezzo di acquisto (e altrettanti in investimenti), si stava garantendo di pagare sempre meno. Nel frattempo aveva chiesto e ottenuto circa 500 milioni di prestito dal “Decreto liquidità”. In Italia far pagare meno ai Mittal e più alle tasche di chi versa le tasse (lavoratori e pensionati) è considerata una cosa positiva da destra a sinistra.
In Italia far pagare meno ai Mittal e più alle tasche di chi versa le tasse (lavoratori e pensionati) è considerata una cosa positiva da destra a sinistra
Il 15 aprile 2021 esordisce la NewCo “Acciaierie d’Italia” con l’ingresso di Invitalia (l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa), con il 32% di capitale, mentre il 68% resta in mano ad ArcelorMittal. Nel 2022 e 2023 la produzione crolla ulteriormente, l’impianto è quasi fermo e nuovamente insicuro. Siamo sotto i 3 milioni di tonnellate di prodotto annuo in uno stabilimento che sotto i 6 milioni di tonnellate va in perdita.
Ma anche gli ultimi fermo immagine andrebbero studiati. A marzo 2023 un decreto del ministero delle Imprese e del Made in Italy concede la possibilità anche alla minoranza di una società di chiederne il commissariamento per insolvenza. L’11 settembre il governo firma un memorandum of understanding senza coinvolgere Invitalia. Il testo è segreto, forse non esiste più. Alcuni parlamentari tarantini di FdI fanno trapelare che prevederebbe l’uscita dello Stato (?) e investimenti per 4,62 miliardi per affrontare la trasformazione energetica degli impianti, di cui 2,27 provenienti da fondi pubblici europei. Nel frattempo Invitalia dichiara di non conoscere la situazione di insolvenza rispetto ai fornitori (gas e non solo) e le capacità reali di centrare gli obiettivi produttivi.
E salta nuovamente tutto. L’Assemblea dei soci e il Cda certificano l’assenza di possibilità di accordo. Sul tavolo si passa alla proposta di ribaltare l’assetto proprietario e salire al 60% e poi al 66% con Invitalia o, nuovamente, il commissariamento (cioè l’amministrazione straordinaria). Nelle ultime settimane la situazione peggiora oltre ogni previsione: mentre il governo aveva parlato di “divorzio consensuale”, il 18 gennaio arriva in “Gazzetta” il decreto che prepara il Commissariamento (e tanta altra cassa integrazione) e il blocco della mediazione in sede giudiziale. ArcelorMittal la anticipa: si apprende che tre giorni prima ha proposto presso il Tribunale di Milano la “composizione negoziata”, mentre al contempo, citando una norma del 2019, si protegge dai “creditori”. Il 20 gennaio l’Ad Aditya Mittal scrive al presidente del Consiglio rilanciando una soluzione “consensuale”, offrendo la possibilità di liquidare tutte le quote o di retrocedere a rango di investitore di minoranza. In assenza di risposta, il 25 gennaio presenta ricorso contro il decreto del governo. Quest’ultimo risponde con un ulteriore decreto per proteggere i creditori.
Sembra una brutta partita di tennis, in realtà si conferma nel nostro Paese l’unica certezza: il contenzioso giudiziario. E una seconda certezza: si quantificano i debiti accumulati in circa 550 milioni, alcuni a lunga scadenza, di cui circa la metà (263 milioni) già scaduti.
Senza siderurgia? A giudicare da quello che accade nel mondo tutt’altro. Il primo produttore al mondo di acciaio, con 131 milioni di tonnellate, è il gruppo statale cinese Baowu (che doppia il secondo produttore ArcelorMittal). Va considerato che prima del 2000 la Cina era un importatore netto di acciaio (e di alluminio) e oggi produce circa metà della produzione mondiale. Il settore si sta consolidando e verticalizzando, dalle miniere agli impieghi del “freddo”, con gigantesche operazioni globali. In questa direzione rientrano le acquisizioni di Us Steel da parte di Nippon Steel e gli accordi dei grandi produttori di acciaio (tra cui Baowu) con i colossi minerari come Bhp e Rio Tinto. Nei prossimi anni è attesa una grande crescita di produzione in India.
La siderurgia italiana non è solo a Taranto: vero, ma Taranto alimentava una filiera in tutto il Paese. Nel Nord Italia la siderurgia è ancora forte. Molti in questi giorni dicono che, tanto, l’acciaio non si farà più in Europa. Non sanno di che cosa parlano. Del resto, in Italia ci sono solo due opzioni politiche: essere anti-industriali o essere a-industriali. La seconda è la più diffusa e include purtroppo una parte di establishment economico importante e competente che però derubrica industria e lavoro a “noiosa microeconomia”.
In Italia ci sono solo due opzioni politiche: essere anti-industriali o essere a-industriali. La seconda è la più diffusa
Questo è invece un momento di sfida del e al capitalismo industriale. Tuttavia servono politici che abbiano contezza di che cosa vive il nostro Paese e di come esso debba essere guidato dentro le transizioni. Dall’industria all’innovazione al lavoro, abbiamo schiere di “bla-bla-tori” che col “battutificio” e gli slogan pensano che si possa governare una nazione come la nostra. Si può e si deve essere esigenti con le aziende (italiane e straniere) ma lo si è in modo efficace se si è credibili e affidabili.
Il Paese è povero di materie prime, “condannato” ad avere un’industria manifatturiera in grado di esportare per tenere in piedi la nostra bilancia commerciale. L’industria manifatturiera italiana che esporta di più utilizza metalli. Non avere materie prime ci può stare, avere filiere troppo lunghe sul nostro settore primario industriale è costoso e pericoloso, come abbiamo visto, e pagato, anche durante la pandemia (e oggi con la crisi nel Mar Rosso). Proprio in queste ore il governo francese sta finalizzando un accordo per muovere la decarbonizzazione del sito di Dunquerke attraverso un impianto di riduzione delle emissioni finanziato per circa 850 milioni dal governo (su 2 miliardi complessivi di investimento). L’impianto prevederà due nuovi forni elettrici e un contratto di approvvigionamento di energia elettrica dal nucleare prodotto da Electricité de France (Edf).
La storia Ilva tra Pil perso, stanziamenti a vuoto e cassa integrazione è costata attorno ai 40 miliardi ed è ormai evidente che non si può procedere più per approssimazioni e tentennamenti: l’unica condizione è che si arrivi al controllo pubblico con in tasca il nome dell’investitore industriale che prenderà in tempi brevissimi il posto di ArcelorMittal. Ci sono investitori italiani? Questo è il momento! Altrimenti occorre cercare altrove.
Chi ha proposto in questi anni la chiusura di Ilva ha sempre sostenuto che sarebbe arrivato un “ben altro” che a Taranto ancora non è arrivato. Chiudere Ilva conviene a troppi, in Italia e all’estero. Taranto ha un territorio e una popolazione che meritano una prospettiva diversa da questo sterile declino.
Resta un grande rammarico: Taranto poteva essere la cartina di tornasole di un’Italia che sa cambiare. Capace di coniugare ambiente, occupazione e ben vivere. La politica sa che è troppo faticoso, i media altrettanto. Meglio esaltare le contraddizioni che gestirle mettendo al centro la prospettiva delle persone. Ilva è lo specchio di un Paese in guerra con se stesso che crede che le fabbriche non servano o non esistano più. Anche solo questo sarebbe un buon motivo per non gettare la spugna.
Riproduzione riservata