Come in quella italiana, c’è stata poca Europa nella campagna elettorale spagnola e l’astensione, con il 51,79%, ha superato di due punti la media europea. Il Pp di Feijóo ha battuto sul tasto dell’amnistia voluta dai socialisti per i reati commessi nel processo indipendentista catalano, chiamando gli elettori a una sorta di referendum contro il governo di Sánchez. I socialisti hanno rinfacciato al Pp la permeabilità, rispetto all’estrema destra di Vox, con cui governano in cinque Comunità autonome e in vari capoluoghi di provincia. Il partito di Abascal ha martellato sul voto quasi sempre congiunto di popolari e socialisti nell’Europarlamento per denunciare il teatrino della loro contrapposizione in Spagna, presentando Vox come alternativo a entrambi. A Sinistra del Psoe, Sumar e Podemos si sono beccati tra loro come i polli di Renzo.

Il Pp con il 34,2% dei consensi è risultato il primo partito, così come lo era stato nelle legislative del 2023, aumentando lo scarto rispetto ai socialisti dall’1,38% al 4%. Il Psoe ha ottenuto il voto del 30,2% degli elettori, arretrando dell’1,5% rispetto al 2023. Al terzo posto si è confermato Vox con il 9,6% dei voti e un arretramento del 2,7% sempre rispetto al 2023. Al quarto posto è giunta Ahora República, alleanza dei tre partiti nazionalisti di sinistra di Catalogna (Erc), Paesi Baschi (Eh Bildu) e Galizia (Bng) con il 4,9% dei voti a fronte del 3,6% che la somma delle tre formazioni aveva ottenuto nelle ultime legislative. A seguire si è collocata, con il 4,6% dei consensi, la coalizione di sinistra Sumar, che ha superato di poco più di un punto percentuale Podemos, l’altra lista a sinistra del Psoe. Tra le due formazioni si è piazzata l’inedita e stravagante lista di Alvise Pérez, Se acabó la fiesta, Salf, (La festa è finita) con il 4,6% dei voti. A chiudere l’elenco delle forze politiche che sono riuscite a mandare propri rappresentanti all’Europarlamento: Junts con il 2,5% e Coalición por una Europa solidaria (Ceus) dei partiti nazionalisti moderati baschi, baleari, canari e navarresi con l’1,6%.

Nella nuova ripartizione dei seggi dopo la Brexit, i 61 assegnati alla Spagna sono andati: 22 al Pp (+9 rispetto al 2019), 20 al Psoe (-1), 6 a Vox (+2), 3 a Ahora República (=), 3 a Sumar e a Salf, che non erano presenti nel 2019, 2 a Podemos (-4), 1 a Junts (-2) e 1 a Ceus (=). Da segnalare l’ennesimo fiasco di Ciudadanos, che anche in questa occasione, dopo le legislative del 2023 e le elezioni galiziane, basche e catalane di quest’anno, non è riuscita a eleggere nessun rappresentante. Voti intercettati dal Pp, a compensazione di quelli ceduti a Vox.

Nella nuova ripartizione dei seggi dopo la Brexit, i 61 assegnati alla Spagna sono andati: 22 al Pp (+9 rispetto al 2019), 20 al Psoe (-1), 6 a Vox (+2), 3 a Ahora República (=), 3 a Sumar e a Salf, che non erano presenti nel 2019, 2 a Podemos (-4), 1 a Junts (-2) e 1 a Ceus (=)

Ciò premesso, il risultato delle europee del 9 giugno consente di svolgere alcune considerazioni. La prima è che non c’è stato nessun referendum contro Sánchez. L’incremento di voti del Pp e la lieve flessione dei socialisti non avrebbero dovuto fornire motivo ai popolari per chiedere a Sánchez ciò che in Francia il Rassemblement National di Le Pen e Bardella ha chiesto a Macron. Eppure, fin dal primo confronto parlamentare, il 12 giugno, adducendo il cattivo risultato di Sumar e la presunta conseguente scarsa affidabilità del governo, Feijóo ha esortato Sanchez a indire nuove elezioni, ma lasciando cadere l’irrealistica minaccia di presentare una mozione di censura, ventilata durante la campagna elettorale. Questa, infatti, oltre che sul voto del Pp e di Vox avrebbe avuto bisogno di quello di Junts, cioè della destra indipendentista catalana di Puigdemont che avrebbe posto il Pp nella stessa situazione di dipendenza dal voto nazionalista del Psoe.

Per maggiore chiarezza, è necessario ampliare lo sguardo. Feijóo e i suoi sostengono che a governare dev’essere il partito che ottiene più voti. Il ragionamento non farebbe una piega se non contenesse un sottinteso che recita così: quando il partito vincitore non dispone, da solo o in coalizione, della maggioranza assoluta per la fiducia, il partito sconfitto deve astenersi in occasione del voto di fiducia per consentire l’insediamento del leader del partito vincitore. Di tutt’altro avviso Sánchez, secondo cui la guida del governo spetta a chi dispone della maggioranza nel Congresso dei deputati: quindi, a chi può avvalersi del potere di coalizione. Gioca ovviamente sul velluto, dal momento che praticamente nessuno dei partiti nazionalisti è disponibile, almeno ora – perché in passato si sono viste innaturali e dispendiose alleanze tra Aznar e Pujol –, a sostenere il Pp.

Un secondo ordine di considerazioni riguarda la battuta d’arresto di Sumar. Alla sinistra del Psoe esiste storicamente uno spazio politico che il Partito comunista spagnolo (Pce) occupò da protagonista nell’opposizione al franchismo e nella transizione alla democrazia, per poi perdere progressivamente rilevanza per motivi che non viene al caso esaminare in questa sede, se non per dire che si tratta di uno spazio che non è stato mai solidamente occupato dalla sinistra ex e post-comunista di Izquierda Unida alleata con i verdi. Ciò fino a quando, nel 2015, Podemos seppe capitalizzare, sia nelle comunali, sia nelle legislative con oltre tre milioni di voti, pari al 12,69% e 42 deputati, il movimento degli indignati esploso nel maggio del 2011, per poi giungere nelle politiche anticipate del 2016 a superare con le formazioni alleate i cinque milioni di voti, pari al 21,15% dei consensi, e a eleggere 71 deputati, fermandosi a una incollatura dai socialisti.

Poi il lento declino, spiegabile con il recupero socialista grazie alla tenacia di Sánchez, il prezzo pagato nella trasformazione da movimento a partito, la competizione per la leadership del partito tra Pablo Iglesias e Íñigo Errejón, l’oggettiva difficoltà a tenere assieme l’arcipelago composto da circa venti tra movimenti e gruppi, oltre a Izquierda Unida, presenti nelle diverse realtà territoriali (En comú podem, En marea, Más Madrid, Compromis, ecc.), espressione virtuosa della pluralità spagnola, ma allo stesso tempo realtà dispendiosa per la necessità costante di mediazioni e ricuciture. Fino al clamoroso errore commesso da Pablo Iglesias nelle elezioni per la Comunità autonoma di Madrid del 2021, quando s’incaponì a combattere all’insegna dell’antifascismo la presidente del Pp uscente, e confermata, Isabel Díaz Ayuso, amazzone dell’irresponsabile “liberi tutti” durante la pandemia. Nello sbandamento prodotto dalla sconfitta e dall’abbandono della politica di Iglesias, s’inserì Yolanda Díaz con la nuova coalizione di Sumar alla quale Podemos si associò nel 2023, pur contestando la decisione di non convocare primarie per la leadership. Di qui i progressivi dissapori tra, da una parte, Sumar coalizione e Movimento Sumar fondato da Díaz e, dall’altra, Podemos, fino ai risultati deludenti del 9 giugno, a seguito dei quali Yolanda Díaz si è dimessa da coordinatrice di Sumar, ma non dal governo del quale è vicepresidente seconda oltre che apprezzata ministra del Lavoro. Ora, varie voci hanno manifestato il proposito di avviare la rifondazione di quest’area, senza che si sappia ancora come e verso cosa.

Vox, pur incrementando lievemente voti, percentuale e seggi rispetto alle europee del 2019, è arretrato in termini di voti e percentuali sia rispetto alle politiche del luglio 2023, sia e soprattutto rispetto alla seconda delle due elezioni del 2019

Una terza considerazione riguarda Vox che, pur incrementando lievemente voti, percentuale e seggi rispetto alle europee del 2019, è arretrato in termini di voti e percentuali sia rispetto alle politiche del luglio 2023 – quando ottenne 3.057.000 consensi (12,38%) –, sia e soprattutto rispetto alla seconda delle due elezioni del 2019, quella del 10 novembre, quando Vox toccò lo zenit con 3.656.979 voti (15,08%). La volatilità di almeno una parte dell’elettorato di Vox mostra che per quanto pretenda presentarsi come partito di militanti, in realtà intercetta una quota considerevole del voto di protesta, che può tornare nell’astensione, al Pp o andare addirittura verso una destra ancor più radicale, com’è successo con gli oltre 800 mila voti e i 3 europarlamentari ottenuti il 9 giugno da Se acabó la fiesta.

Una quarta considerazione riguarda proprio l’irruzione di questa nuova lista per iniziativa di Luis Pérez Fernández, conosciuto come Alvise Pérez, un trentaquattrenne sivigliano, già militate di Unión Progreso y Democracia, poi di Ciudadanos, noto per frequentazione di due spazi pubblici: 1) quello etereo del suo canale di Telegram e delle reti sociali (Twitter, poi X) dove è andato acquisendo followers cavalcando le paure generate dalla pandemia del Corona virus e alimentando le teorie cospirazioniste; 2) quello delle aule dei tribunali, nelle quali ha dovuto difendersi dalle accuse di calunnia, diffamazione, diffusione di notizie e documenti falsi. Temi della sua campagna elettorale l’immigrazione irregolare, la corruzione, il narcotraffico e le mafie, posti tutti nello stesso sacco e convergenti nella richiesta di più muri e più carceri. Le divisioni indeboliscono l’estrema destra? Verrebbe da pensare il contrario. Una destra più estrema della destra estrema rende apparentemente meno impresentabile quella preesistente. Non è quello che sta succedendo in Francia con Zemmour e in Italia con la collocazione della Lega di Salvini a destra di FdI?

In conclusione, il voto spagnolo ha contribuito con 22 seggi (+8) al rafforzamento dei popolari e con 9 seggi (+3) a quello dell’estrema destra nell’Europarlamento. Se in Italia il voto europeo ha consolidato il governo, nel Paese iberico non l’ha messo in discussione. La situazione per Sánchez resta complessa, ma invariata rispetto a prima. Lo resta perché un settore della magistratura intralcia l’applicazione della legge di amnistia; lo resta per quanto concerne il rinnovo del Consiglio generale del potere giudiziario (Cgpj) che il Pp blocca da cinque anni per congelare le nomine fatte quando disponeva della maggioranza assoluta; lo resta per la necessità di contare alla bisogna sul voto dei partiti nazionalisti e, in particolare, di Junts. La partita tra Puigdemont e Sánchez resta aperta. Il primo vuole presiedere un governo nazionalista in Catalogna, a scapito del vincitore socialista delle elezioni catalane. Non ottenendolo potrebbe concorrere a far cadere il governo di Madrid nel momento in cui il voto di Junts dovesse essere determinante. Sánchez ha dalla sua il fatto che cadendo il suo governo, subentrerebbero i popolari, molto peggio disposti nei riguardi dei nazionalismi basco e soprattutto catalano. Prevarrà in Puigdemont la logica del tanto peggio, tanto meglio, riedizione del contro le destre si lotta meglio?

Per contiguità geografica e rompere il pressoché generale silenzio della stampa italiana sull’esito delle elezioni in Portogallo (tra le rare eccezioni, Goffredo Adinolfi su “il Manifesto”), va segnalato che le hanno vinte i socialisti e che l’estrema destra di Chegaha perso circa il 70% dei consensi rispetto alle ultime elezioni politiche.