Alla fine, e stiamo parlando di dati ancora provvisori (forniti in via ufficiosa dal Pd), si sono recati ai gazebo quasi due milioni e mezzo di elettori. Oltre ogni previsione, anche la più rosea, della vigilia, che stimava al massimo due milioni di persone al voto. Certo, rispetto agli oltre 3 milioni di votanti delle ultime due tornate di consultazioni nazionali, quella per l’elezione diretta del segretario Pd 2009 e quella della coalizione Italia Bene comune dello scorso anno, mancano all’appello quasi un milione fra iscritti e simpatizzanti. Anche se per un partito che alle ultime elezioni politiche ha subito una perdita di oltre 3 milioni di voti e che dalla mancata elezione di Romano Prodi al Quirinale sembrava vittima di un’irreversibile crisi di credibilità e consenso, mobilitare quasi due milioni e mezzo di persone non può che considerarsi un risultato molto positivo.
Le più significative punte di partecipazione si sono verificate nelle cosiddette regioni rosse, Emilia-Romagna e Toscana in testa, rispettivamente con 350.650 e 347.660. Sono quelle anche le regioni, insieme ad altre due tipiche realtà territoriali di tradizionale insediamento della sinistra, come Marche e Umbria, dove Matteo Renzi conquista più del settanta percento dei consensi. A significare che la vittoria del Sindaco di Firenze, come già in parte si poteva desumere dal voto per le convezioni di circolo, è maturata all’interno del popolo del Pd (e di centrosinistra) come scelta consapevole a favore di un rinnovamento della classe dirigente del partito.
Si tratta di un selettorato nelle cui fila forte è la presenza di persone in età relativamente più adulta, mentre meno consistente è la componente dei giovani. Anche se questo dato, che in parte riflette le stesse caratteristiche demografiche della società italiana, non è certamente nuovo per chi si occupa di primarie. Forse ci si aspettava che la presenza di due candidati under 40 avrebbe favorito una maggiore partecipazione giovanile. E viceversa si assiste a un fenomeno molto particolare, comunque degno di considerazione. Una generazione di iscritti e simpatizzanti del Pd, in cui si riflettono i tratti caratteristici dell’elettorato tradizionale di centrosinistra, che finora aveva creduto nei leader che avevano costruito e guidato il partito fin dalla sua fase costituente, ha deciso che è giunto il momento di voltare pagina. Solo fino a un anno fa Matteo Renzi faticava a essere riconosciuto, da questo stesso popolo, come un uomo di sinistra. Oggi la sua elezione a segretario del Pd ne segna il definitivo “sdoganamento”. Sono il livello di partecipazione e la sua articolazione sul territorio a dirlo con chiarezza.
Il Pd ereditato da Renzi dopo il voto di ieri è anche un partito più coeso intorno al suo leader di quanto non lo fosse stato sia con Bersani sia con Veltroni. Aver ottenuto quasi il 68% dei consensi, dopo essersi confrontato con una parte consistente del gruppo dirigente democratico di questi anni, la stessa che dal 2007 e fino alla segreteria di Guglielmo Epifani ha sostanzialmente mantenuto il controllo sull’apparato organizzativo del Pd, ma che oggi esprime poco meno del venti per cento, mette a disposizione del Sindaco di Firenze un patrimonio di legittimazione che potrebbe essere sufficiente per avviare davvero una fase di profonde trasformazioni. Resta l’incognita della geografia degli organismi provinciali, molti dei quali, a seguito del voto qualche settimana fa, sono ancora governati da esponenti della vecchia maggioranza, che oggi si riconoscono nella figura di Gianni Cuperlo.
La sfida per il cambiamento, dunque, è aperta. E anche se i suoi esiti sono ancora incerti una cosa è certa: Renzi è il primo segretario del Pd che sembra disporre di tutte le condizioni per poterla condurre in porto con successo.
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