Il voto andaluso. Domenica si è votato in Spagna per il rinnovo del Parlamento andaluso, prima scadenza elettorale di un anno che il 24 maggio porterà alle urne i cittadini di tredici Comunità Autonome e di tutti i comuni, mentre il 27 settembre sarà la volta di quelli catalani. Inutile dire del significato politico di ciascuno di questi appuntamenti elettorali, se si considera che tra novembre e dicembre – la data non è stata ancora fissata – si svolgeranno le elezioni politiche generali per eleggere i rappresentanti delle nuove Cortes. Sarà quella, infatti, una prova decisiva per il sistema politico spagnolo che dal 1978 ha funzionato con un bipartitismo quasi perfetto, ma che da qualche tempo sta scricchiolando: per il forte astensionismo, la debolezza della leadership in casa socialista, l’irruzione sulla scena di un movimento, da poco trasformatosi in partito, come Podemos, accreditato dai sondaggi di una quota dell’elettorato che supera il 20% e, non ultimo, per il risultato del voto europeo del 2014, che per la prima volta ha visto i due principali partiti, PP e PSOE, restare assieme sotto la soglia del 50% dei consensi.

Si è cominciato dunque dall’Andalusia, la regione più popolosa della Spagna, quella con il più alto tasso di disoccupazione e tradizionale roccaforte dei socialisti che la governano ininterrottamente da oltre tre decenni. Ciò, nonostante che nel 2012 fosse stato il PP a vincere sonoramente le elezioni, conquistando 50 dei 55 seggi necessari per ottenere la maggioranza; maggioranza che il PSOE, invece, pur avendo perso allora 9 seggi rispetto al 2008, aveva raggiunto grazie al voto, alquanto sofferto per la verità, di Izquierda Unida (IU). Venuto a mancare questo appoggio e, a quanto pare anche per bruciare sul tempo Podemos ancora in fase di organizzazione, Susana Díaz, che presiede il governo andaluso, ha anticipato il voto di un anno sulla scadenza naturale, non ultimo per rafforzare, grazie all’auspicato esito positivo, la propria leadership sul piano nazionale in vista di una eventuale sfida con il segretario generale socialista Pedro Sánchez per la candidatura alla guida del Paese.

I risultati le hanno dato ragione, poiché il PSOE ha confermato i 47 seggi del 2012, pur arretrando di circa 4 punti percentuali.

Il dato politicamente più rilevante del voto andaluso è stato, però, il tracollo dei popolari che hanno perso 17 seggi e qualcosa come 14 punti percentuali. Come da copione, Rajoy ha subito precisato che il risultato non è trasferibile sul piano nazionale. Difficile però non leggervi una spia del forte logoramento del partito, che paga le politiche di austerità e gli scandali per i finanziamenti illeciti, anche se messi a tacere, che hanno coinvolto il suo gruppo dirigente.

L’irruzione di Podemos non è stata travolgente come si aspettavano alcuni. Ma chi si aspettava un risultato travolgente da Pomedos trascurava i sondaggi più seri, secondo cui il partito di Pablo Iglesias in questa competizione non sarebbe andato oltre il 15%. Quota che ha effettivamente raggiunto, conquistando 15 seggi, grazie anche al travaso di voti da Izquierda Unida, che di seggi ne ha persi 7. Se non è stata una valanga, si è trattato comunque di una affermazione notevole: Podemos ha duplicato i voti rispetto alle europee, collocandosi in terza posizione.

Un successo considerevole ha riportato anche la nuova formazione Ciudadanos, un movimento fondato a Barcellona nel 2005 dall’ex popolare Albert Rivera,  trasformatosi l’anno dopo in partito e proiettatosi successivamente al di fuori della Catalogna ottenendo alle prime uscite scarso successo. Un movimento che inizialmente in Catalogna puntava a occupare lo spazio lasciato libero dalla curvatura nazionalista del PSOE, mentre poi ha provato a intercettare il voto di un elettorato scontento dei due principali partiti, ma non così radicale da votare per Podemos. (Riuscendoci, c’è da dire, almeno in Andalusia, visto che ha ottenuto il 9,2% dei consensi e 9 seggi, che potrebbero venir utili per confermare la presidenza di Susana Díaz, anche se questa prospettiva è stata smentita subito sia dai socialisti, che da Rivera.)

Ciudadanos è però una formazione dai confini ideologici e programmatici confusi, una sorta di “Podemos di destra moderata”, che potrebbe essere destinata a ripercorrere la strada ormai in discesa dell’Unión Progreso y Democracia (UP y D) di Rosa Díez, che propostasi di spezzare il bipartitismo, vivacchia da qualche tempo fortemente in calo, non  essendo riuscita neppure in questa tornata a eleggere propri rappresentati al Parlamento di Siviglia.

Da alcuni risvolti del voto andaluso si possono senz’altro trarre spunti per tentare di leggere gli orientamenti dell’elettorato sul piano nazionale: la forte disaffezione nei riguardi del PP, la crisi della sinistra radicale tradizionale con il travaso di voti da IU a Podemos e la capacità di quest’ultimo di attrarre i consensi della fascia più instabile dell’elettorato socialista, la tenuta dello “zoccolo duro” del socialismo andaluso, l’intercettazione da parte di Ciudadanos del voto di settori delusi dalla politica dei popolari. Ma soprattutto il fatto che le forze politiche che hanno dato voce negli ultimi anni alla disaffezione per la politica e alla protesta contro la corruzione della “casta” rappresentano in Andalusia un elettore su quattro. Ancora troppo pochi per modificare gli equilibri politici della regione, e certamente insufficienti, se proiettati sul piano nazionale, a rompere lo schema bipartitico. Anche perché la legge elettorale vigente – che né il PP, né il PSOE si sognano di cambiare – premia le forze politiche più grandi. Il sistema politico consente al partito che vince di governare senza la maggioranza assoluta: ma quello spagnolo è un bipartitismo solo quasi perfetto, dal momento che i partiti con forte radicamento territoriale, come i partiti nazionalisti catalani e baschi, sono più volte intervenuti in passato per garantire la governabilità al partito che non aveva i numeri per farlo.