Lo scorso venerdì 15 aprile, Bernie Sanders ha attraversato l’oceano da New York a Roma per parlare di morale economica. L’occasione, tra le più invitanti per un candidato socialdemocratico, gli è stata offerta dalla Pontificia accademia delle scienze sociali, impegnata nelle celebrazioni del venticinquesimo anniversario dalla pubblicazione della lettera enciclica Centesimus annus.
L’evento ha visto in programma trentasei figure di fama internazionale, di cui una su due proveniente dagli Stati Uniti. Le relazioni discusse sono state presentate da studiosi e capi di Stato, tutti americani, ai quali si è aggiunto in corsa proprio Sanders con una breve comunicazione dal titolo The Urgency of a Moral Economy: Reflections on the 25th Anniversary of Centesimus Annus. Una conferenza che dunque guarda dalle Americhe al mondo, forse influenzata dalla prospettiva del cancelliere dell’accademia, il cardinale Marcelo Sanchez Sorondo, che negli anni Settanta lasciò l’Argentina per intraprendere quella che è divenuta una fulgida carriera accademica internazionale.
La presenza di Sanders ha creato qualche incomprensione – soprattutto tra la presidente dell’accademia Margaret Archer e il cardinale Sorondo – e generato dissapori tra i cattolici statunitensi più attivi nello scenario politico e editoriale. Senza dubbio, l’invito del cancelliere e la partecipazione di Sanders hanno incuriosito un ampio pubblico e portato gli strateghi (elettorali e non) a ricercare le ragioni che hanno indotto a rendere pubblica l’inedita sintonia tra il candidato ebreo alla nomination democratica e la dottrina sociale di papa Francesco.
Il discorso pronunciato da Sanders è in piena linea con i temi e la retorica della sua campagna elettorale: speculazione finanziaria, deregolamentazione, commistione tra politica e finanza e ineguaglianze di reddito sono le distorsioni del capitalismo che il senatore del Vermont si propone di riformare. In generale, la concordanza di vedute con il pontefice è declinata dallo stesso Sanders seguendo quanto indicato nell’enciclica Laudato si’ e nell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium sulle distorsioni delle economie di mercato e dei sistemi finanziari.
Questo però non stupisce: già mesi prima dell’inizio della campagna per le primarie Sanders citava, più o meno direttamente, i testi del pontefice. Ciò che più colpisce è che Sanders veda se stesso e papa Francesco sullo stesso fronte di contrasto al “vitello d’oro”, l’abbaglio che in Esodo 32, 1-35 il popolo prende prima di essere condotto alla terra promessa. E stupisce non tanto per l’uso della citazione biblica, ma per l’associazione che Sanders produce in chi lo ascolta: così come il papa è impegnato a combattere i falsi idoli nella Chiesa universale, così anche lui si impegna a combatterli negli Stati Uniti. Un unico stile di leadership per un unico nemico da combattere.
Sul finire del suo discorso Sanders giunge persino a lasciare che sia Francesco a rispondere a «i ricchi e potenti» che lo accusano «di non essere “pratico”», di non voler accettare lo status quo, di non vedere che la vera morale economica non può essere raggiunta: «Papa Francesco è egli stesso la più grande prova nel mondo contro questo genere di resa alla disperazione e al cinismo. Lui ha aperto gli occhi del mondo ancora una volta verso la necessità di misericordia, giustizia e le possibilità di un mondo migliore. Lui sta ispirando il mondo nel ricercare un nuovo consenso globale per la nostra casa comune».
Da queste parole non emerge solo un candidato “moderatamente” ebreo a caccia dei voti dei cattolici; non si deduce il solo tentativo di appellarsi ai tanti fan di Bergoglio per spostare il voto e il focus del partito su posizioni più socialdemocratiche. Queste parole ci raccontano di come persino un senatore settantaquattrenne socialdemocratico del Vermont trovi lo spazio politico per un rilancio idealista degli Stati Uniti come “città sulla collina”: un eccezionale esperimento storico che con Sanders acquista però la capacità di “epurarsi” e rinnovarsi.
Tra le conseguenze di questa nuova visione vi è il rinnovo di una dinamica classicamente novecentesca dei rapporti tra Stati Uniti e Santa Sede, la competizione universalista. La figura e il successo di Francesco negli Stati Uniti hanno messo Sanders nelle condizioni di poter spendere a sinistra e in modo credibile la carta di una “Santa alleanza”, sino ad oggi appannaggio di una destra neo/teo-conservatrice. Saggiamente, il candidato si è ben guardato dall’includere nel connubio anche la libertà, sulla quale vescovi statunitensi e establishment governativo non sono di certo convergenti.
Certo, ad oggi è difficile stabilire se questa serie di corrispondenze sia frutto esclusivo dell’ “effetto Francesco” sulla macchina elettorale o se invece non sia il risultato del costante accrescimento del potere politico della compagine cattolica all’interno dell’establishment statunitense.
Inoltre, con altrettanta difficoltà sarà possibile verificare un’evoluzione di queste dinamiche: Sanders ha perso le primarie nello stato di New York e, se non deciderà di ritirarsi prima dalla competizione, con ogni probabilità sarà destinato alla sconfitta alla convention di Filadelfia.
Tuttavia, ciò che possiamo registrare è che l’esperienza di Sanders e la scaltrezza della sua squadra elettorale hanno individuato una serie di temi facilmente spendibili sul terreno religioso pur nell’ambito di una campagna che guarda poco o nulla alla fede dei candidati. E che la Pontificia accademia delle scienze sociali, voluta da Giovanni Paolo II proprio per comprendere lo spazio della dottrina sociale cattolica nella società contemporanea, ha inteso incoraggiare le modalità con le quali questi temi vengono proposti e narrati.
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