Tanti miti della nostra giovinezza sono tramontati, ma gli avvenimenti degli ultimi mesi ne hanno compromesso uno che aveva segnato più di una stagione: il mito europeista.
Pensare che l’Unione europea possa essere attualmente lo specchio dei sogni degli europeisti degli anni che arrivano fino agli anni Ottanta del secolo scorso è impossibile. Il plateale fallimento nella ricerca di una politica comune e sensata a fronte di un fenomeno storico come le immigrazioni di massa dall’ex Terzo mondo dimostra che nell’Ue non esiste né una cultura politica comune, né una leadership autentica capace di imporsi agli Stati membri. Se ci si aggiunge l’incredibile gestione della vicenda greca non ci si può che confermare in questa convinzione. La crisi di oggi ha, certamente, origini relativamente lontane. La prima è stata la disinvolta politica di allargamento che generava dalla fretta di sottrarre gli ex satelliti sovietici a ogni ipotesi di risucchio in una rinascita della vocazione imperiale russa. Quel compito andava di pari passo con la trasformazione della Nato, ma alla fine è diventato una politica a sostegno di questa senza riuscire ad andare molto più in là, almeno nella maggioranza dei casi.
Il fatto è che la Comunità europea è nata e si è sviluppata come un frutto dell’età dell’abbondanza e grazie a essa ha potuto fingere che si fondasse invece sulla condivisione di una cultura e di un costituzionalismo di tipo solidaristico-progressista. L’accettazione, più o meno convinta, di questi presupposti politico-culturali era legata al desiderio di entrare a far parte di un club in cui c’era da guadagnare in termini di benessere e di crescita economica.
Quando questo fattore ha iniziato a incrinarsi i nodi hanno cominciato a venire al pettine: lo si era già visto col naufragio dell’ambizioso progetto di una Costituzione europea, e da quel momento in avanti non c’è più stato alcun progresso nella costruzione di una ragionevole forma di Unione. Per evitare che qualcuno potesse anche solo provarci si è provveduto a nominare al vertice delle sfere esecutive personaggi che davano garanzie di non avere alcuna capacità di esercitare un ruolo propositivo al di sopra della assemblea di condominio dei capi di governo dei diversi Paesi aderenti.
In un contesto del genere parlare di una cultura politica condivisa è semplicemente impossibile. Non c’è a livello economico, dove fra il resto pretendere che questa mancanza sia surrogata dalla Bce è credere alle favole, perché una banca, per di più concepita come si è fatto per questa istituzione, non può diventare un organo di governo, almeno se si capisce che governare significa avere il potere di dare indirizzi in anticipo. Ma non c’è neppure a livello politico, dove in materia di etica pubblica (ovvero di corruzione), di considerazione dei diritti umani, di capacità di orientamento delle pubbliche opinioni la situazione è quanto mai frastagliata (per usare un eufemismo).
Se ci fosse la condivisione reale di parametri, alla Grecia non sarebbe stato consentito così a lungo di comportarsi da furbetti truccando i conti e gestendo un’economia allegra, così come all’Ungheria non si consentirebbe di predicare (e praticare) politiche che sono fuori dalla civiltà giuridica occidentale. E citiamo solo i due casi più eclatanti.
Che strumenti ha l’Unione europea per evitare il suo almeno momentaneo congelamento nei confini ristretti di un’area di classica cooperazione economica? Quasi nessuno. Le opinioni pubbliche della quasi totalità dei Paesi membri sono più che altro attanagliate dalla paura della crisi economica sommata alle inquietudini derivanti da avvenimenti internazionali che appaiono ostili e difficilmente dominabili. I governi non se la sentono certo di mettersi a remare controcorrente, mentre i vertici esecutivi di Bruxelles non hanno il carisma che la situazione richiederebbe. In più si basano su un’elefantiaca burocrazia, buona più a fare vecchia propaganda europeista che a gestire la progettualità di risposta alle sfide incombenti.
Del Parlamento europeo meglio non parlare, tanto non è capace di esprimere alcun “indirizzo politico” sui temi reali della crisi, impegnato al massimo in qualche battaglia d’immagine nel solco di ciò che si presume sia il politically correct (a seconda dei casi di destra o di sinistra).
Tutto questo ragionamento mira a sostenere gli istinti antieuropeisti che il populismo sta versando nel dibattito pubblico di questi anni? No, perché chi scrive resta convinto che problemi epocali come quelli che abbiamo davanti non siano risolvibili nel vecchio quadro degli Stati nazionali. Solo che un quadro diverso va costruito su fondamenta solide e non sulle fantasie degli allargamenti a tutti i costi e del benessere che automaticamente arriverebbe solo che il mercato sia ampio e comune.
La politica è una cosa seria: ha bisogno di pensiero forte e di leader accreditati. Ha bisogno della costruzione d’interconnessioni accettate e di classi dirigenti che investono nella loro manutenzione e possibilmente nel loro sviluppo.
Quando vedremo temi di questo tipo posti in testa all’agenda europea torneremo a credere nel mito europeo.
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