I Comitati per il «no» lamentano che l’informazione non dia abbastanza spazio al referendum-fine-di-mondo sulla riforma della Costituzione. E certo il cittadino comune – che non legge i giornali, ascolta distrattamente i telegiornali, ed eventualmente si (dis)informa su internet – spesso ignora tuttora di cosa si tratti. Ma nel mondo parallelo dell’informazione Italian Style, nel quale i commenti hanno da tempo sostituito i fatti, il referendum è ormai diventato un tormentone, se non un genere letterario a se stante in cui chiunque può esercitarsi, con effetti spesso surreali. Solo la settimana scorsa, per dire, si sono accese almeno tre discussioni, senza contare le polemiche interne al Pd: e mancano ancora cinque mesi all’appuntamento referendario.
Anzitutto, a seguito dell’appello contro la riforma lanciato da cinquantasei costituzionalisti, fra i quali undici ex-presidenti della Corte costituzionale, s’è accesa la discussione sul cosiddetto spacchettamento: perché, invece di un «sì» e di un «no» in blocco, non votare su quesiti separati? Ma perché – e aggiungerei ovviamente – la riforma costituzionale è già abbastanza scombinata di suo che un’approvazione o un respingimento a pezzi potrebbe destrutturarla definitivamente. E non si dica che le incongruenze potrebbero recuperarsi in sede di regolamenti parlamentari. Resterebbe sempre il rischio di dovercela tenere così, la Costituzione: a pezzi.
Poi, dopo un’intervista smentita a un componente togato del Csm, s’è riacceso anche il dibattito sulla partecipazione dei giudici alla campagna referendaria, con l’ovvia replica: ma come, hanno partecipato alla campagna sulla riforma berlusconiana, e non potrebbero partecipare a quella sulla riforma renziana? Infine, è intervenuta pure «Civiltà cattolica», portando il suo sofferto sostegno alle ragioni del Sì. Nessuna adesione al plebiscito chiesto dal premier, ci mancherebbe: meno che mai all’indomani della legge sulle Unioni civili. Semmai, un paterno/materno richiamo alle esigenze della stabilità: che mai accadrebbe, infatti, se la vittoria del «no» producesse davvero il ritiro dalla politica di Renzi?
Ora, qualcuno dirà che persino il tormentone finirà per sensibilizzare la cittadinanza, aumentando la partecipazione al referendum d’autunno. Ma, a parte che si tratta di un referendum costituzionale, dunque senza quorum, questa discussione raccogliticcia, fatta di discussioni secondarie che si staccano dal ramo principale, non è l’ideale per chiarire le idee agli elettori. Quel che si perde è proprio la differenza fra questioni essenziali e no. Pure su questo, naturalmente, si può aprire un dibattito. Ma a me pare che l’essenziale non sia neppure la riforma costituzionale, bensì il suo collegamento con la legge elettorale, l’Italicum.
Dopotutto, che ci sia un Senato eletto indirettamente su base regionale, o che non ci sia affatto, come personalmente preferirei, cambia poco. Ciò che davvero cambia è che l’Italicum conferisce una maggioranza bulgara nell’unica Camera che conti, quella dei Deputati, al partito vincitore, quale esso sia: anche se rappresentasse non più del trenta per cento dei votanti, e ancor meno dell’elettorato. È da questo giudizio di Dio quinquennale, dunque, che rischia di dipendere d’ora in poi la qualità della nostra democrazia. Ma di questo, delle firme che si stanno raccogliendo per i due referendum abrogativi, dell’atteso intervento della Corte costituzionale, non c’è pericolo che nessuno parli.
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