Il concreto rischio di una crisi regionale. Nella notte tra sabato e domenica la capitale dell’Eritrea e in particolare l’aeroporto di Asmara sono stati colpiti da alcuni razzi lanciati dal Tigrai. La guerra che da due settimane è andata crescendo nel Nord dell’Etiopia ha dunque oltrepassato i confini del Paese e rischia di destabilizzare un’intera regione, quella del Corno d’Africa, compreso il Sudan dove stanno cercando rifugio già migliaia di persone. In realtà, i segnali, che per tanti versi anticipavano quello che sta succedendo, erano chiari e facilmente interpretabili già due anni prima, quando nell’aprile del 2018 Abiy Ahmed iniziò il suo mandato di presidente dell’Etiopia. L’elezione del nuovo capo della Repubblica federale non fu un semplice avvicendamento, ma rappresentò un vero e proprio cambio di regime che apriva a una transizione allora incerta e oggi sull’orlo della guerra civile. L’arrivo sulla scena di Abiy Ahmed poneva fine al ventennio di potere dei tigrini del Fronte di liberazione di Meles Zenawi e a due guerre con l’Eritrea che avevano reso il confine tra i due Paesi uno dei più militarizzati al mondo. L’egemonia politica e soprattutto economica dell’Ethiopian people's revolutionary democratic front, controllato dal Tigray people's liberation front, si estendeva sull’intera Etiopia ed era stata messa in discussione già negli ultimi anni dell’era Zenawi dalla crescente protesta oromo e in parte somala. Il nuovo presidente Abiy Ahmed si presentò come l’uomo della pace e per questo si è visto riconoscere il premio Nobel nel 2019, ma soprattutto si rappresentò come l’iniziatore di una nuova Etiopia nella quale una nuova idea di nazione solidale e più equa avrebbe dovuto rimpiazzare l’egemonia tigrina nelle istituzioni politiche ed economiche. La transizione alla nuova Etiopia ha però visto sempre più la classe dirigente tigrina arroccarsi in una posizione di conserva, considerando lo Stato federato del Tigrai come una retrovia dove riorganizzare il proprio potere politico e militare perso al centro, ad Addis. Non per caso furono moltissime le industrie che erano state impiantate nella regione della capitale durante gli anni del boom economico etiopico a essere letteralmente smontate e trasferite nel Tigrai. Detto in altre parole sono due anni che nel Paese si respira una crescente tensione tra il nuovo governo ad Addis, intento a sostituire buona parte dei quadri dirigenti del precedente regime, e l’atteggiamento diametralmente opposto dei tigrini, fermi sulla loro posizione di non far entrare in Tigrai nessun alto dirigente inviato da Addis. Un vero e proprio muro contro muro che ha coinvolto anche i quadri dell’esercito ed è sfociato in numerosi episodi di violenza armata in diverse regioni del Paese. Oggi siamo alla resa dei conti.
I missili sparati sull’Eritrea sono stati giustificati da parte tigrina, argomentando che gli eritrei avrebbero passato il confine e di fatto sarebbero pronti a sostenere l’iniziativa militare dell’esercito federale di Addis che nei giorni immediatamente precedenti si era intensificata al confine col Tigrai. Per il governo del Tigrai gli eritrei sono i nemici di sempre con i quali è stato il nuovo governo federale a negoziare una pace che a Mekelle, la capitale del Tigrai, non è mai stata accettata fino in fondo. Non è certo un caso che nel 2018 mentre Abiy Ahmed volava ad Asmara per incontrare il presidente eritreo Isaias Afewerki, a Mekelle guadagnava la scena l’idea di un rinnovato nazionalismo pantigrino: il progetto era ed è quello di unire le due regioni storiche del Tigrai, al di qua e al di là del fiume Mareb, che traccia per buona parte il confine negoziato alla fine dell’Ottocento con l’Italia dopo la vittoria etiopica ad Adwa nel 1896. La resistenza armata dei tigrini non ha semplicemente l’obiettivo, come alcuni commentatori hanno rilevato, di promuovere una secessione da Addis Abeba, ma quello di creare un nuovo grande Tigrai. Un simile progetto non è ovviamente accettabile per il governo eritreo, né tanto meno per quello etiopico poiché attenta alla loro stessa esistenza. Per certi versi il progetto tigrino è una estremizzazione di quell’idea di identità sub-nazionali che la Costituzione della Repubblica federale etnica dell’Etiopia ha promosso fin dalla sua creazione nel 1995. Se dopo gli anni del regime marxista del Derg, Meles Zenawi reinventò l’Etiopia promuovendo un assetto di potere regionale nel quale però i tigrini avevano una posizione di egemonia, la perdita di una tale posizione ha innescato il conflitto e sta portando alla rivendicazione della piena dignità statuale e nazionale dell’identità etnica e sub-nazionale tigrina. Sarebbe tuttavia semplicistico addossare tutte le colpe ai tigrini poiché è evidente che con la nuova Etiopia di Abiy Ahmed continuano a essere in molti a viverne al margine di quel potere, a partire dai somali, mentre ad avere ottenuto i vantaggi maggiori sono stati sicuramente gli oromo e gli amhara. Lo stesso Aniy Ahmed, per arrivare da una storia politica di militanza all’interno del movimento politico oromo, ha faticato a prenderne le distanze ed è stato accusato più volte dai suoi ex compagni di partito di avere una politica troppo poco oromo.
Non vi è dubbio che il problema di fondo dell’attuale conflitto è la cultura politica fondata sul paradigma etnico al quale si richiama appunto la stessa etichetta di Repubblica etnica federale. L’etnicismo affonda le sue radici nella spartizione coloniale del Corno d’Africa tra Italia, Francia e Gran Bretagna e in particolare nella costituzione dell’Impero dell’Africa orientale italiana (Aoi) nel 1936, quando i confini dell’intero Corno d’Africa vennero ridisegnati proprio sulla base della costruzione di ben determinate componenti etniche. Proprio attraverso l’Aoi venne per la prima volta costruita una grande Eritrea che annetteva all’antica colonia italiana anche il Tigrai etiopico e sulla base di quel confine il movimento pantigrino ipotizzò lo smembramento dell’Eritrea, tra terre alte e terre basse. Il rischio più grande oggi è proprio che il conflitto in Etiopia assuma un marcato carattere etnico, ossia che la conflittualità che ha radici nella gestione politica ed economica del potere finisca per debordare in una più generalizzata caccia all’etnicamente diverso, con il rischio tutt’altro che peregrino della pulizia etnica, ossia quando una persona finisce per essere uccisa semplicemente perché riconosciuta come etnicamente tigrina, oromo, amhara o altro, a prescindere da chi in realtà egli sia. Ai tempi della pandemia globale, l’Italia e l’Europa hanno dimostrato di essere particolarmente distratte rispetto all’escalation militare in corso nel Corno d’Africa. Solo la notizia di migliaia di profughi che al confine sudanese potrebbero tramutarsi rapidamente in altrettante migliaia di migranti in fuga dalla guerra diretti verso le nostre coste via Libia ha avuto l’effetto di attirare l’attenzione interessata dell’Italia e dell’Europa. In realtà il vero attore internazionale che potrebbe esercitare un reale ruolo di mediazione è la Cina che è il principale partner economico e politico di tutti i contendenti. I distretti manifatturieri ad alta intensità produttiva e la cooperazione allo sviluppo cinese rappresentano una leva negoziale non da poco, tanto più che la Cina, proprio per salvaguardare i suoi ingentissimi interessi nel Corno, ha aperto a Gibuti nel 2017 la sua prima base militare al di fuori dei suoi confini territoriali. Sulla via però di un attivo impegno cinese per la pace nel Corno rimane l’ostacolo del principio cardine della proiezione cinese in Africa, ossia quello di cooperare senza ingerirsi nelle vicende interne dei Paesi con i quali si coopera.
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