Se i dati epidemiologici lo consentiranno, l’Assemblea generale della Conferenza episcopale italiana (in sessione ordinaria, prevista almeno una volta l’anno) tornerà a riunirsi dal 24 al 27 maggio prossimi. E sarà il momento di discutere, tra il resto, del cammino sinodale cattolico in Italia, dopo che una proposta è già stata consegnata a papa Francesco.

Che sulla questione insiste dal Convegno ecclesiale nazionale del 2015, in cui aveva invitato la Chiesa italiana a decidere «insieme» davanti alle sfide e alle tentazioni del presente. Passando per l’assemblea generale del 2019, all’apertura della quale aveva parlato di un «probabile Sinodo» della Chiesa in Italia. E per l’incontro con l’Ufficio catechistico nazionale del 31 gennaio di quest’anno, quando ha rivolto ai vescovi italiani la richiesta esplicita di «incominciare un processo di Sinodo nazionale, comunità per comunità, diocesi per diocesi». Incursioni, queste, dovute all’iniziale e perdurante assenza di reazioni nell’episcopato. Protrattasi fino all’ultimo appello, cui sono seguite le considerazioni del presidente Bassetti sulle colonne di Avvenire, che culminavano nell’idea di una sinodalità come «stile di vita ecclesiale» e fondavano la proposta di cammino sinodale consegnata al papa il 27 febbraio scorso.

L’insistenza di Francesco era teologica: data dalla convinzione, espressa nel 2015, che la sinodalità fosse «il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio». Ma era anche pratica: essendo la sinodalità un esercizio di apprendimento più che un’agenda, così che non si può sperare di superare il momento di impasse ecclesiale senza una condivisione reale delle ragioni di tutti. Un aspetto, per altro, ricorrente in molti dei discorsi di Francesco, anche pronunciati per attori diversi. Come quello dello scorso Natale alla Curia romana, in cui sottolineò che «senza la grazia dello Spirito Santo, si può persino cominciare a pensare la Chiesa in una forma sinodale che però, invece di rifarsi alla comunione con la presenza dello Spirito, arriva a concepirsi come una qualunque assemblea democratica fatta di maggioranze e minoranze».

L’insistenza di Francesco è sia teologica sia pratica. Poiché la sinodalità, il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio, è un esercizio di apprendimento più che un’agenda: non si può sperare di superare il momento di impasse ecclesiale senza una condivisione reale delle ragioni di tutti

Il che significava, prima che il timore di una sovrapposizione tra sinodalità e democrazia, la secondarietà dei contenuti. I quali si impongono come atto secondo e sempre da sé, mediante un processo di recezione latente nella Chiesa. Motivo per cui la sinodalità rappresenta un cammino, che è l’espressione cui ha fatto ricorso la Conferenza episcopale italiana, preceduta in questo dalla Chiesa cattolica tedesca (mentre processi analoghi si stanno verificando in Australia e Irlanda). Se non fosse che le cornici di tale uso comune siano distinte: là dove i vescovi italiani sembrano attestarsi su un uso aggettivale a differenza di quello sostantivale dei colleghi tedeschi, o se si preferisce sull’idea di movimento più che di evento. Il che impone delle riflessioni sulle recezioni della sinodalità come tema centrale anche per la stessa comprensione del Sinodo italiano. Sembra chiaro infatti che le convergenze scarseggino se il tema è ciò che la sinodalità implica per la Chiesa, come dimostra il bisogno di dedicare a questo il Sinodo dei vescovi del 2022 (che potrebbe slittare al 2023). Ma è chiaro anche che esista una pluralità di recezioni degli appelli di Francesco alla Chiesa italiana.

Anzitutto una recezione istituzionale. Coincidente con gli atteggiamenti dei vescovi, oscillanti dalla riluttanza a una rilettura stilistica del Sinodo. Ma non solo con i loro, essendo ampiamente diffusa in tutto il cattolicesimo italiano. Essa consiste nella ricerca di un metodo che attui il carattere sinodale della Chiesa. Ma un Sinodo non è un metodo. Piuttosto, il metodo del Sinodo è né più né meno che lo stesso modo d’esistere della Chiesa: l’articolazione sempre rappresentabile delle sue componenti secondo le comprensioni storiche e teologiche di esse. Una recezione, quindi, cosciente del rischio di una sinodalità di facciata, cioè di quella sua perversione che vaporizza l’operatività insita nel paradigma sinodale riducendolo a una cerimonia senza conseguenze. E d’altra parte una recezione fragile: che non affronta il tratto problematico di lasciare intoccate strutture o dinamiche, nella Chiesa, che si scoprono incompatibili sul piano sinodale (ad esempio in termini di coinvolgimento e partecipazione).

Un Sinodo non è un metodo per attuare il carattere sinodale della Chiesa. Piuttosto, il metodo del Sinodo è né più né meno che lo stesso modo d’esistere della Chiesa: l’articolazione sempre rappresentabile delle sue componenti secondo le comprensioni storiche e teologiche di esse

Il quadro si complica se si parla di recezione teologica. Poiché appare solo accennata, se non in affanno di fronte a ciò che è da pensare per l’attuale momento ecclesiale. Della sinodalità sappiamo che non è accidentale per le comunità ecclesiali, ma non sappiamo ancora come si relazioni con la prova storica della celebrazione di sinodi e concili nella storia della Chiesa. Cioè in che modo la sinodalità come principio storico possa diventare vera oggi, il che vale anche per la stessa Chiesa istituzionale: che non può sussistere senza un impianto teologico a tutela della sua ecclesialità. La necessità di una recezione teologica dipende infatti dall’impossibilità di non pensare la fede e il suo vissuto comunitario, la cui attualità si dà secondo forme e sensibilità variabili. Sebbene la loro resa effettiva non dipenda in tutto e per tutto dalla teologia: che può essere superata dalle pratiche di vita credente disseminate a ogni latitudine.

È possibile quindi una recezione ecclesiale. Che equivale a una presa di coscienza collettiva in quanto Chiesa in Italia: comunità di credenti che si pensano tali ma anche cittadini. Una recezione indubbiamente minoritaria, malgrado resti la sola capace di congiungere l’intera soggettività cattolica. E che non può restare tale anche per rendere ragione della presenza della Chiesa cattolica nel nostro Paese. La quale ha una storia complessa, fatta di poche occasioni di confronto che abbiano messo al centro la vita quotidiana dei cristiani e delle cristiane d’Italia. Come dimostra anche, in un certo senso, la tradizione dei convegni tematici organizzati ogni dieci anni, progressivamente allontanatisi dalla prima grande esperienza di mobilitazione collettiva degli anni Settanta (il convegno su Evangelizzazione e promozione umana).

Ciò che una recezione ecclesiale implica, infatti, non ha a che fare con i contenuti né con un marchio di fabbrica. Ma con la realizzazione effettiva della figura sinodale della Chiesa. Alla quale sola occorre guardare perché un Sinodo sia cassa di risonanza del Vangelo. Esperienza ritrovabile anche in chi, come Yves Congar, aveva consegnato al proprio diario non poche impressioni negative su un concilio appena cominciato.