Segno forse dell'europeizzazione della politica nazionale, da qualche tempo una formula francese è entrata a far parte del dibattito italiano: il fronte repubblicano o front républicain. Si tratta di una pratica che possiede un potenziale estremamente utile in una sequenza politica caratterizzata da una profonda instabilità. Bisogna però maneggiarla con cura e consapevolezza se non si vuole correre il rischio di renderla inoperante.
La primissima variante del fronte repubblicano appare negli ultimi decenni dell’Ottocento in Francia. L’intensità e la frequenza delle crisi della Terza Repubblica, nata dalla caduta del Secondo impero (1870), obbligano a più riprese i repubblicani a ricercare larghe alleanze tattiche che possano contenere le spinte reazionarie, bonapartiste, monarchiche. Alla grave crisi dell’Affaire Dreyfus risponde, per esempio, il lungo governo detto di “défense républicaine” di Waldeck-Rousseau (1889-1902), capace di riunire nello stesso blocco politico i socialisti indipendenti e il “massacratore” della Comune di Parigi, il marchese de Galliffet. La notevole efficacia di questa prima forma del front républicain proviene dalla capacità di fare convergere sulla difesa di un minimo comune denominatore (la Repubblica) un insieme di forze politiche estremamente eterogenee a vocazione maggioritaria.
Con le elezioni presidenziali francesi del 2002 appare in modo puro la forma contemporanea della dottrina del front républicain. Lo sconcerto provocato dal passaggio al primo turno di Jean-Marie Le Pen vede una convergenza convinta e immediata di tutte le forze politiche francesi. Grazie alla loro unione tattica, la vittoria di Chirac diventa plebiscitaria al secondo turno (82,21% dei voti, con una partecipazione di 79,71% degli aventi diritto). Interessante notare come la continuità e quindi la normalizzazione della minaccia frontista sembra avere indebolito in questi ultimi quindici anni l’impianto del front républicain. L’elezione di Emmanuel Macron, che comunque beneficia di una convergenza importante di voti, mostra un risultato di molto inferiore all’exploit del primo fronte repubblicano (66,10% al secondo turno, con il 74,56% degli aventi diritto al voto – di cui più di 4 milioni tra bianchi e nulli). Si può quindi notare che l’efficacia del front républicain è quasi per essenza inversamente proporzionale alla sua durata.
Da questi rapidi cenni storici si può dedurre una lezione politica. Il fronte repubblicano non ha interesse a costituirsi come una coalizione o come un partito stabile. L’invocazione del front républicain dovrebbe quindi coincidere con momenti limitati di grande intensità e instabilità politica, come l'intervallo tra i due turni dell’elezione presidenziale francese che, in una visione un po' forzata della pratica costituzionale italiana, potrebbe coincidere con le consultazioni del presidente della Repubblica.
L’unione del front républicain infatti è momentanea: tattica, non strategica. Il rischio è di perdere altrimenti la vocazione maggioritaria, limitando l’effetto del dispositivo e non riuscendo a neutralizzare l’eventuale minaccia per la configurazione repubblicana.
Non per niente, il solo esempio di fallimento di questa pratica politica in Francia per il momento lo si deve all’alleanza limitata al centro-sinistra alle elezioni legislative del 1956, chiamata appunto Front républicain. Riunita attorno alla figura di Pierre Mendès-France per fare sbarramento al movimento di matrice populista di Poujade e proporre la via dei negoziati nella crisi della guerra d’Algeria, la coalizione politica ha un successo elettorale relativo. Si spacca però quasi subito, aprendo alla crisi anche istituzionale che distruggerà la Quarta Repubblica.
Una lezione storica che può tornare utile nei tempi movimentati dalle incertezze del governo upupa.
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