Nonostante alcuni pronostici della vigilia elettorale, sembra ormai chiaro che Recep Tayyip Erdoğan, leader dell’Akp (Partito della giustizia e dello sviluppo) e capo della coalizione Alleanza del popolo è stato confermato presidente della Turchia.
Con il 52% dei voti, Erdoğan ha infatti battuto Kemal Kılıçdaroğlu, leader del Chp e capo dell’Alleanza della nazione, la quale teneva insieme tutto l’arco delle opposizioni (eccezion fatta per l’Alleanza ancestrale: una formazione ultranazionalista di estrema destra, trasformatasi dopo il primo turno in ago della bilancia). I risultati elettorali ribadiscono quanto certi sondaggi della vigilia del primo turno fossero in errore nel ritenere Erdoğan all’angolo. Già il ballottaggio si è reso necessario non tanto per il numero di voti riportato da Kılıçdaroğlu (di poco superiore al 44%) ma perché Erdoğan non era riuscito a raggiungere la maggioranza assoluta dei consensi, probabilmente avendo perso una parte del proprio elettorale in favore del leader ultra-nazionalista dell’Alleanza ancestrale, Sinan Oğan.
Anche al secondo turno i nazionalisti hanno avuto un ruolo rilevante, pagato a prezzo di una spaccatura interna. Se una parte di loro, apparentemente considerevole, ha seguito l’indicazione di Oğan di sostenere il presidente uscente, un’altra si è invece orientata per Kılıçdaroğlu. Le più rigide dichiarazioni circa il rimpatrio dei siriani che quest’ultimo si è affrettato a rilasciare hanno così alienato al leader del Chp (il Partito repubblicano della Turchia, erede del kemalismo) le simpatie di una parte della popolazione curda, che pure gli aveva consegnato più dell’80% delle preferenze nelle aree del Sud Est. A contribuire alla vittoria del presidente uscente, inoltre, ci sarebbe stata la partecipazione al voto degli indecisi, che si sarebbero astenuti al primo turno per poi sostenerlo al ballottaggio. Meno rilevanti, seppure sempre presenti da quando l’Akp è asceso al potere, sembrano essere le accuse di brogli elettorali. Come il report Oidhr rilasciato a poche ore dal primo turno ha evidenziato, in realtà, tali accuse sono state avanzate da entrambi gli schieramenti e tuttavia non sembra che i casi di schede contestate abbiano avuto una influenza determinante sul risultato elettorale. In verità, il cosiddetto “autoritarismo competitivo” che Erdoğan e l’Akp hanno saputo istituire non funziona sull’alterazione dei risultati elettorali – che altrimenti avrebbero visto il presidente uscente trionfare al primo turno e non esporsi al ballottaggio – bensì sul controllo dell’accesso ai media e ai fondi pubblici durante la campagna elettorale.
Erdoğan sembra avere idee molto chiare sul futuro del Paese che, tuttavia, si presenta fortemente diviso a livello sociale e decisamente debole a livello economico
Come i manifesti che hanno riempito le città turche in questo periodo hanno costantemente ricordato agli elettori, la vittoria di Erdoğan significa “continuare con il giusto passo” per dare inizio al “secolo della Turchia”. La leadership dell’Akp sembra avere idee molto chiare su quale dovrà essere il futuro del Paese che, tuttavia, si presenta alla vigilia di questo inizio fortemente diviso a livello sociale e decisamente debole a livello economico.
Erdoğan, infatti, sembra voler continuare a consolidare per la Turchia il ruolo di potenza regionale, possibilmente riaprendo con l’area Schengen il dialogo per l’abolizione dell’obbligo di visto per i cittadini turchi in entrata senza che questo comporti necessariamente il riavvio del negoziato con l’Unione europea. In questo senso, peraltro, non devono trarre in inganno le molte dichiarazioni che speravano nella vittoria di Kılıçdaroğlu. Le sue promesse per il ripristino dello Stato di diritto hanno attirato il supporto degli operatori nel campo dei diritti umani, ma non è certo quanto le cancellerie europee (e più in generale quelle occidentali) abbiano auspicato con una sostituzione ai vertici del potere, visto che le posizioni chiaramente filo-atlantiste del leader del Chp avrebbero posto fine al ruolo di mediatore che la Turchia svolge da tempo su più tavoli negoziali, a cominciare dall’Ucraina. Una Turchia pienamente rispettosa degli standard europei, inoltre, avrebbe potuto nuovamente chiedere il completamento del percorso negoziale di adesione all’Ue avviato nel 1959, imponendo alle istituzioni dell’Unione e ai governi di molti Stati membri di trovare nuove giustificazioni al perdurante diniego.
Per mettere la Turchia al centro degli scenari internazionali, Erdoğan sembra poter fare a meno dell’Europa
Per mettere la Turchia al centro degli scenari internazionali, Erdoğan non sembra invece aver bisogno dell’Europa. Lo dimostrano le sempre più strette relazioni economiche con la Russia, che continua ad assicurare le forniture di gas ad Ankara rinviando “il pagamento della bolletta” e che sostiene la transizione à la turca verso la green economy attraverso la costruzione di impianti nucleari. Anche la Cina si afferma sempre più come partner nell’import/export turco e nel sostegno al debito pubblico attraverso linee di credito sapientemente negoziate che triangolano con gli accordi commerciali conclusi con le potenti monarchie emiratine e qatariote.
L’allontanamento geopolitico dall’Europa sembra avere importanti riflessi anche sulle proiezioni per il nuovo secolo in materia di diritti. La visione universale dei diritti umani, fondata in primo luogo sul principio di uguaglianza, pare non rientrare nell’orizzonte di questa Turchia, che sempre più innesta nel proprio tessuto giuridico la visione erdoğanista dell’Islam politico. Così le donne hanno diritto ad accedere a uguali diritti e il loro contributo all’economia del Paese va incentivato tanto quanto va garantita la protezione dalle violenze (anche domestiche), ma la famiglia – sempre più tutelata anche attraverso politiche per sostenere i nuclei numerosi in tempi di crisi economica – rimane il cardine della società nel cui ambito il ruolo delle donne va prioritariamente considerato, secondo una impostazione patriarcale che conferma la complementarietà fra i sessi. Corollario di questa teoria è l’assoluto diniego dei diritti LGBTQAI*, spesso etichettati come strumento per l’indebolimento della società. Quest’ultima, peraltro, sempre più intesa come composta da differenti gruppi omogenei per appartenenza etnica e/o religiosa.
Stante il ruolo centrale per il gruppo maggioritario turco-sunnita, l’Akp potrebbe essere disposto a ragionare – in un revival post-ottomano del sistema dei millet – sul riconoscimento di diritti comunitari per le minoranze religiose ed etniche, in primo luogo per i curdi, che pure hanno assicurato un certo sostegno in questa tornata elettorale attraverso lo Huda-Par.
Resta da capire quale potrà essere il lascito di Erdoğan su questioni come la libertà di espressione e di associazione, nonché il rapporto con i nuovi media
Resta da capire quale vorrà essere il lascito di Erdoğan – che a seguito di queste elezioni diviene il più longevo leader del Paese superando anche il padre della patria Atatürk – su questioni come la libertà di espressione e di associazione nonché il rapporto con i nuovi media e i social network, che a queste libertà sono intrinsecamente legati. In una società molto più giovane anagraficamente di quelle europee, infatti, Erdoğan potrebbe scegliere di conquistare i cuori della generazione Z passando attraverso un “ammorbidimento” delle norme che più duramente hanno compresso il diritto di manifestazione del pensiero e che sembrano rappresentare la principale spiegazione fornita da quanti si dichiarano pronti a lasciare il Paese per emigrare.
I risultati elettorali, infine, impongono alla leadership dell’Akp di ragionare con attenzione circa la relazione che si vorrà costruire con l’opposizione politica. Se è vero che l’Alleanza per la nazione potrebbe avere vita breve – visto che già all’indomani del primo turno Meral Akşener si è sentita in dovere di avviare una breve riflessione interna al proprio partito prima di confermare nuovamente il proprio sostegno a Kılıçdaroğlu – è comunque chiaro che i numeri in seno alla Grande assemblea nazionale richiederanno in occasione delle riforme più importanti di negoziare il sostegno (almeno in parte) dell’opposizione. In questo potrebbe avere un ruolo non secondario Devlet Bahçeli, leader del partito Mhp, ormai solida spalla dell’Akp, che potrebbe ricucire i rapporti con i fuoriusciti – non solo la Akşener, ma lo stesso Oğan – e ricostituire un fronte nazionalista schierato con Erdoğan la cui influenza sulle politiche del nuovo governo, soprattutto in tema di minoranze etniche e rifugiati, potrebbe essere di segno opposto alla riapertura del dialogo precedentemente auspicata in questa sede.
Il secolo della Turchia si apre mettendo la sua ormai ventennale classe dirigente dinanzi a diversi bivi, che ancora una volta possono essere riassunti nella contrapposizione fra il consolidamento di un autoritarismo competitivo sempre più definito e la riapertura della strada verso una democrazia partecipativa e inclusiva delle differenze e delle opposizioni.
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