L’appuntamento più importante del 2014 saranno le elezioni per il Parlamento europeo. È l’ottava volta che siamo chiamati a eleggere i nostri rappresentanti nel consesso più importante dell’Europa a 28 Stati. Le incognite che circondano queste elezioni sono tuttavia molte. Come bene ha messo in rilievo “The Economist” (nel dossier The World in 2014, p. 35), sono due gli esiti più probabili: il netto calo dei partecipanti al voto e il successo dei partiti antieuropei. La domanda per la democrazia europea passava per la creazione di un’Assemblea eletta direttamente da tutti i cittadini degli Stati membri. Il sogno di Altiero Spinelli e di altri si è realizzato solo nel 1979, ma da allora in poi l’affluenza è stata in costante e preoccupante calo. Siamo passati dal 62% nel 1979, al 59% nel 1984, al 58% nel 1989, al 57% nel 1994, al 50% nel 1999, per poi scendere al 45% e al 43% rispettivamente nel 2004 e nel 2009. L’attesa per il voto di maggio 2014 è per una percentuale ancora inferiore: un dato intorno al 40% confermerà non tanto il declamato “deficit democratico” delle istituzioni, quanto lo scarsissimo senso di appartenenza dei cittadini europei all’Europa come “Stato”.
Il secondo scenario sarà una piena affermazione di quel “sentimento antieuropeo” che è già molto diffuso nel nostro continente, che troverà modo di esprimersi attraverso forze politiche nazionali antisistema, nel senso della loro istituzionale contrarietà al processo di integrazione. Di conseguenza, il nuovo Parlamento non solo godrà di una bassa legittimazione democratica, per effetto della scarsa affluenza al voto, ma, soprattutto, sarà composto in larga misura da partiti che vorranno ritardare ulteriormente o ostacolare il già difficile percorso verso l’Europa unita. La drammaticità di questo quadro in Italia è aggravata da alcuni motivi tipicamente nazionali. Non è ignoto che nessun partito ha credibilmente fatto dell’Europa il motivo caratterizzante della propria vocazione politica. Non che le cose siano molto diverse negli altri Paesi. La differenza tra noi e gli altri, oltre all’approccio adeguatamente professionale che contraddistingue i nostri partner quando partecipano alle riunioni che contano, è che la crisi politica del nostro sistema è talmente tanto grave che il principale tema di discussione (tutto interno) resta o la sopravvivenza o la gattopardesca trasformazione della classe politica. Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, nel discorso di fine anno, si è dedicato quasi esclusivamente ai problemi interni, dando voce al “Paese reale” contro i limiti e gli scandali del sistema politico e delle istituzioni democratiche nazionali. Il problema è che la politica europea in Italia è assai debole, se non proprio inesistente, perché legata a una cultura nazionale nana, molto poco consapevole della gravità delle questioni che contano.
Mi limito a pochi esempi. Basti pensare alla difesa del carattere necessariamente nazionale dell’Alitalia contro possibili acquisizioni da parte di altre compagnie (non dell’altro mondo ma) “europee” come Air France/Klm. Si considerino, ancora, le ricerche scientifiche sull’Europa, nella maggior parte dei casi di carattere meramente descrittivo dello stato dell’arte del processo d’integrazione, condotte con approccio prevalentemente di tipo burocratico, che non solo conferma l’immagine fredda e distante delle istituzioni europee presso il comune cittadino, ma che soprattutto contribuisce a mettere in secondo piano, anche nei confronti dei decisori politici, i vantaggi concreti derivanti da una piena unificazione. Le polemiche interne contro il “pareggio di bilancio”, che una vulgata diffusa ritiene “imposto dall’Europa” come se dell’Europa non facessero parte i governi dei Paesi che assumono le decisioni che contano, al di là del merito, indicano chiaramente un approccio culturale diffuso, diretto a considerare su piani drammaticamente separati il destino nazionale (ma quale?) e quello europeo.
È sostanzialmente inutile sperare che qualcosa possa cambiare nei mesi che ci separano dal voto di primavera. La prossima sarà o ancora una legislatura di attesa o, forse peggio, una legislatura nella quale il percorso europeo potrebbe avere una pericolosa involuzione sciovinista. La crisi economico-finanziaria e le risposte che in Europa e nei nostri Paesi sono state date, nella loro gravità e straordinarietà, dimostrano invece la necessità di dotare il processo europeo di soggetti portatori di un progetto di piena ed effettiva unificazione. In tempi ragionevoli certo, ma come sbocco chiaro e definitivo, intorno al quale far collaborare immediatamente coloro che condividono questo obiettivo e aggregando, per gradi, quanti riterranno di voler confluire negli Stati Uniti d’Europa. Il problema dell’Europa oggi non sono le istituzioni europee, ma proprio l’assenza o la debolezza di forze sociali e politiche che vogliono costruire una nuova identità costituzionale che si sostituisca a quella degli stati nazionali.
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