La ricorrenza della nascita di Luigi Pedrazzi, avvenuta non molti giorni fa, il 24 settembre, pur non essendo ancora per qualche anno quella commemorativa di un centenario – essendo l’intellettuale bolognese nato nel 1927 – è stata accompagnata dal ricordo di un suo lucido e ficcante intervento di analisi politica del maggio 2001. Da più parti si è guardato a quella sua caratterizzazione del termine “riformismo”, significativamente ospitata in una rubrica destinata a tracciare un quadro dei concetti-chiave per la definizione dei connotati ideali dell’esperienza del «Mulino» in occasione del cinquantennale della rivista, come a una possibile stella polare per una collocazione politico-culturale in questo periodo di periglioso confronto con un variegato campionario di radicalismi verbali spesso inconcludenti sul piano delle proposte di reale cambiamento e della loro realizzazione.

In effetti la profondità di analisi, accompagnata da un’ampiezza e una varietà di riferimenti culturali tipiche della riflessione di un pensatore raffinato, offerta a suo tempo nel pur sintetico intervento da Pedrazzi, costituisce sicuramente un contributo di assoluto rilievo a definire un campo e una prospettiva di azione cruciali già per l’immediato futuro, e per queste ragioni merita una lettura attenta e capace di coglierne adeguatamente le sfumature.

In primo luogo, uno scritto deve essere letto tenendo in considerazione la figura del suo autore e il modo in cui egli ha costruito la sua collocazione politico-culturale nel corso dei decenni. Pedrazzi, in particolare, parla di riformismo nel 2001 conscio di essersi trovato al centro del punto d’incontro più fecondo – o forse l’unico realmente praticabile – per un percorso riformista nella storia repubblicana. Quello tra «quella specie di laburismo cristiano» rappresentato dalla sinistra d’ispirazione dossettiana della Democrazia cristiana, e vario mondo liberalsocialista e laico-democratico, vitale soprattutto nelle redazioni dei giornali d’area come «Il Mondo» ma con addentellati parlamentari nei gruppi socialisti e della sinistra indipendente. Dapprima diffidente verso l’establishment democristiano degli «anni dell’onnipotenza» seguiti alla sbornia elettorale del 1948, poi sempre più propenso al dialogo con i settori rimasti operativi negli anni Cinquanta di quel gruppo di sinistra Dc, il cui ruolo sistemico di “ponte” per la definizione della cittadinanza democratica in Italia era chiaro fin dalla Costituente, ed è stato messo in evidenza nella sua continuità da lavori come quelli del primo Pombeni.

In definitiva, a rintracciare nell’esperienza dell’Ulivo che nel maggio 2001 aveva appena concluso la sua quinquennale, travagliata ma significativa permanenza al governo del Paese «la prima volta [che] in questo Paese la bandiera del riformismo aveva assunto il senso di una proposta politica globale» era il Pedrazzi che per oltre un ventennio, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, si era fatto sul suo tema allora di elezione della riforma di scuola e università portatore di un dialogo ampio. Un dialogo intessuto dapprima con Calogero, Piccardi e i liberal-democratici sostenitori dello sviluppo della scuola pubblica universale raccolti attorno a Pannunzio, poi con gli esperti di scuola di area socialista animati da Tristano Codignola e afferenti alla scuola pedagogica sorta a Firenze attorno al padre Ernesto, poi persino con gli studenti del primo Sessantotto, accordando spazio e attenzione ai loro documenti migliori – su tutti le pisane “tesi della Sapienza” – e riconoscendone a più riprese una capacità di analisi che andava al di là del giudizio del collega e amico Matteucci sull’“insorgenza populistica”, proprio mentre era personalmente impegnato a portare avanti quel disegno di legge Gui che dei giovani contestatori era uno dei principali idoli polemici.

Il riformismo di Pedrazzi si dipanava secondo un sicuro radicamento nel campo progressista, e nel tentativo di dare ampio coinvolgimento a figure e istanze delle provenienze più diverse in quel mondo

Anche in termini più generali, come emerse più esplicitamente in altri momenti della sua biografia, ad esempio durante l’impegno politico locale a Bologna, il riformismo di Pedrazzi si dipanava secondo un sicuro radicamento nel campo progressista, e nel tentativo di dare ampio coinvolgimento a figure e istanze delle provenienze più diverse in quel mondo, in fondo riprendendo la geografia politica di un’alleanza che negli anni Novanta comprendeva come interlocutori di primo piano tutti i soggetti dello spettro post-comunista. Del resto, delle precedenti esperienze di incontro, di collaborazione e di proposta programmatica maturate nell’epoca d’oro della “Repubblica dei partiti”, compresa quella fondamentale dei governi di centrosinistra, il Pedrazzi del 2001 teneva a prendere le distanze dai grandi, troppo grandi orizzonti ideologici di utopia – a cui peraltro non era estraneo neppure il cattolicesimo sociale, con la mistica della palingenesi cristiana sicuramente presente nell’orizzonte culturale di Dossetti – piuttosto che dalle proposte concrete, le quali caso mai in un atteggiamento riformista dovevano acquisire rinnovata centralità, in seguito alla rinuncia allo sfondo finale del “grande quadro” rivoluzionario proprio delle ideologie del progresso novecentesche.

Democrazia sostanziale, diffusa etica dell’impegno, cultura matura dei diritti e dei doveri, coinvolgimento della propria base sociale attraverso l’ascolto, la formazione e la guida di una classe dirigente

Posti questi termini, si comprende appieno il valore dei contenuti del riformismo tratteggiato nel saggio da Pedrazzi. Democrazia sostanziale, diffusa etica dell’impegno, cultura matura dei diritti e dei doveri, coinvolgimento della propria base sociale attraverso l’ascolto, la formazione e la guida di una classe dirigente non più separata da essa da una frattura insanabile: siamo di fronte a una piattaforma di intervento deciso sugli equilibri sociali esistenti negli anni Novanta del Novecento, in un Paese in cui la crisi delle grandi ideologie totalizzanti, che poteva essere l’opportunità per una politica maggiormente ancorata alla concretezza dei problemi, ha rivelato prima di tutto voragini di disagi e di disuguaglianze socio-culturali la cui soluzione è prioritaria nella messa a punto di qualsiasi agenda politica progressiva.

L’autore sul punto è chiaro, quando mette in evidenza l’esigenza per il fronte riformista di costruire lo spazio di consenso lasciato libero dai grandi partiti di massa protagonisti fino a inizio anni Novanta, prima di preoccuparsi di occuparne il mero spazio parlamentare, e quando si sofferma sul fatto che proprio su questo terreno l’alleanza riformista dell’Ulivo ha incontrato i maggiori ostacoli, destinati – oggi lo sappiamo – a lasciare nell’area ferite di lungo periodo. Ed è altrettanto chiaro a individuare negli antecedenti culturali del riformismo contemporaneo voci in cui la dimensione puntuale e immediata degli obiettivi d’azione non si traduceva mai in surrettizio compromesso con le dinamiche disfunzionali dell’esistente. Le conquiste sociali e politiche dell’associazionismo operaio e poi dei fabiani nella Gran Bretagna del secondo Ottocento erano rette dalla condivisione di «basi dottrinarie» prive di infingimenti, per quanto espresse nei termini accolti dall’arena politica “legale” da voci come quella di John Stuart Mill. Nel contempo l’inevitabile riferimento italiano al riformismo socialista del primo Novecento, pur meno felice sul piano dei risultati vista la ben diversa situazione in cui ebbe a operare, trovava i suoi rappresentanti-simbolo in figure tutt’altro che prone ad accontentarsi di compromessi con una realtà troppo dura da intaccare, da Filippo Turati a un Giacomo Matteotti che, prima di sfidare il fascismo fino all’estremo sacrificio, durante la Grande guerra aveva vissuto l’esperienza del confino per il suo convinto neutralismo.

Il riformismo di Pedrazzi era insomma, per sintetizzare al massimo, una proposta di cambiamento sociale tanto più netta ed eticamente impegnativa quanto più la fine di utopie consolatorie su cui crogiolarsi in caso di fallimenti o successi parziali rendeva le realizzazioni strategiche in termini di offerta di eguali opportunità e di regolazione condivisa dei rapporti tra le varie articolazioni della collettività il centro dell’azione politica. Una dimensione, questa, ancora più chiara alla luce del contesto in cui Pedrazzi scriveva nel 2001, poco dopo la seconda vittoria elettorale di una destra berlusconiana che l’autore caratterizzava esplicitamente e senza mezzi termini come «neoliberista». In altri termini, suggerisce lo scritto, una compagine rappresentativa delle anime della sinistra progressista può e deve fare i conti con l’esaurimento delle proprie tradizioni culturali in varia misura e in senso lato “rivoluzionarie” – e può impostare al proprio interno un dialogo competitivo e finanche puntuto coi gruppi che cercavano invano di riesumarle – perché preliminarmente si è stabilita una distinzione precisa e una chiusura senza appello nei confronti di una coalizione alternativa composta da «chi si aspetta i cambiamenti migliorativi possibili dalla dinamica spontanea, e quasi senza regole, delle forze sociali in conflitto».

Una lezione che rimane preziosa nel contesto attuale, mutato anche a causa di un acuirsi ulteriore delle disuguaglianze locali e globali dovuto in buona misura proprio all’assenza di una forte e convincente proposta riformatrice

Allo stesso modo alternativo a un atteggiamento riformista, fondato sulla responsabilità di progettare e gestire il cambiamento sulla scorta di decisioni impegnative nate dal confronto e sostenute dal consenso, la pura e semplice gestione dell’esistente, rinuncia a sovvenire al disordine della realtà dietro la quale, spesso, si nasconde una concezione della politica come meri «conquista ed esercizio di potere». Un atteggiamento forse non estraneo a quelle frange di classe dirigente storica del centro-sinistra che, man mano che emergevano i limiti del “neoliberismo” della destra berlusconiana quando si trattava di intaccare gli interessi costituiti di gruppi sociali potenzialmente amici, ha ritenuto opportuno occuparne con assai minori remore la porzione del “mercato delle idee”, proponendosi di partecipare su tali basi ideologiche alla guida del Paese con qualsiasi geometria parlamentare.

In conclusione, la lucida disamina messa a punto da Pedrazzi nel 2001 sul riformismo suo e del «Mulino» si caratterizza innanzitutto per una chiara sovrapposizione tra tale atteggiamento e una moderna politica di cambiamento istituzionale e sociale in senso progressivo, radicalmente alternativa tanto a quelle tensioni esplicitamente “neoliberiste” che dopo la loro affermazione internazionale come mainstream del pensiero sulla cosa pubblica erano sul punto di dispiegarsi appieno anche in Italia, quanto alla rinuncia a dare sostanza al mutamento degli equilibri sociali in nome del potere per il potere. E in questo senso rappresenta una lezione preziosa anche nel contesto dell’oggi, mutato anche a causa di un acuirsi ulteriore delle disuguaglianze locali e globali dovuto in buona misura proprio all’assenza di una forte e convincente proposta riformatrice.