I temi delle guerre dell’informazione (anche fra Stati), della sorveglianza e del controllo sono diventati d’interesse anche per il cittadino comune e, soprattutto, sono correlati non soltanto alle vicende politiche ma pure all’infrastruttura tecnologica stessa così come si è sviluppata sino a oggi. Questo in particolare a seguito degli attacchi portati dal virus «WannaCry», responsabile di un’epidemia mondiale nel maggio del 2017, con oltre 200.000 computer colpiti e cifrati in 120 Paesi, e conseguenti richieste di riscatto, e dal più recente «Petya», che ha agito nel giugno del 2017 e ha colpito anche i sistemi della centrale di Chernobyl.
Com’è noto, gli attentati dell’11 settembre 2001 negli Stati Uniti sono considerati uno spartiacque non soltanto nell’interpretazione di una nuova idea di sicurezza, ma anche nella convinzione diffusa di una volontà di «abbandonare» la privacy e i diritti di libertà in cambio di un’incerta garanzia di protezione statale da atti terroristici e, soprattutto, nel tentativo governativo di raggiungere l’agognato obiettivo di una «sorveglianza globale»: un controllo automatizzato di tutte le informazioni circolanti in ogni rete di comunicazione.
La reazione della politica statunitense nei primi dieci anni dopo l’attentato, però, sembrò ben più attenta a intervenire su istituti tradizionali e al contempo apparve più timida nei confronti della sorveglianza elettronica e delle armi digitali. Il dibattito si accese attorno alla legittimazione della tortura, alle pratiche segrete di extraordinary renditions, alle liste di sospetti sui voli, ai controlli agli aeroporti, alle telecamere, ai sistemi biometrici attivati alle frontiere. Non si era, ancora, nell’era degli iPhone (che ha «personalizzato» su larga scala l’uso delle tecnologie e fatto migrare i dati dei cittadini sui dispositivi mobili), dei grandi social network e delle tecnologie ubique e capillari, e i progetti per potenziare la sorveglianza elettronica operavano, certo, ma in sordina.
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