Il meglio deve ancora venire. Il Regno Unito avrà rompicapi costituzionali per i prossimi anni. Il nodo fondamentale, vi stupirà, riguarda il significato del Brexit. Certo, il popolo sovrano si è espresso. Ma che cosa significa Brexit in pratica? I leader del Brexit non ne hanno la più pallida idea, e adesso temporeggiano per stabilire un piano di azione. Ci vorrà tempo, anche se tempo non ce n’è: l’incertezza sul futuro britannico non può prolungarsi troppo a lungo, non ne gioverebbe il Regno e nemmeno l’Europa.
Prima di sedersi al tavolo dei negoziati, sarà necessario eleggere un nuovo Primo ministro; David Cameron si è dimesso e ha indicato che il suo successore dovrà gestire il processo. Chi sarà non è dato sapere, ma se c’è una logica dovrà essere scelto tra quelli che vogliono Brexit. Il candidato più visibile è Boris Johnson, sindaco uscente di Londra. Ma Johnson è anche quello che divide di più. Immaginiamo, per un momento, che sia lui.
Almeno una cosa è stata chiarita: il negoziato comincerà solo quando il futuro Primo ministro avrà consultato il Parlamento, e probabilmente il popolo. Prima della fine dell’anno, dunque, non succederà nulla. I conservatori devono eleggere un nuovo leader entro ottobre, data del convegno tory. Il nuovo premier dovrà molto probabilmente indire elezioni dopo aver spiegato al popolo che cosa lui o lei intende per Brexit. Solo così può essere certo di rappresentare la volontà del popolo.
Diversi scenari sono possibili, ma nessuno è ideale. Boris Johnson ha cambiato il suo tono ancora una volta: uscire sbattendo la porta non è un’opzione. Anzi, Boris vorrebbe mantenere un piede dentro e uno fuori. In sostanza, vorrebbe i benefici del mercato unico, senza gli obblighi politici e di cittadinanza stabiliti dal trattato di Maastricht. Friends with benefits, come dicono qui. Ma come sappiamo bene, non c’è relazione senza reciprocità. Il mercato unico richiede il rispetto delle libertà economiche, tra le quali la libera circolazione dei lavoratori. E questo confligge con il desiderio britannico di controllare l’immigrazione.
L’ironia più grande è che l’Ue c’entra poco o nulla in tutto questo. Chi ha votato per restare o uscire dall’Unione non conosce quasi nulla delle istituzioni europee. Il voto esprime una serie complessa di opinioni su società, cultura e politica britanniche. Emerge un problema su tutti: le divisioni sono tali che potrebbero portare allo smembramento del Regno Unito.
La Scozia ringhia: ha votato compatta per rimanere, ma adesso deve negoziare l’uscita, cioè esattamente il contrario di quello che l’aveva convinta a votare per rimanere nel Regno Unito un anno fa. Si apre quindi di nuovo lo scenario di una possibile indipendenza, cui si legherebbe una ventilata ammissione all’Unione europea in qualità di Stato sovrano. Un secondo referendum non è minimamente da escludere. Nicola Sturgeon, premier scozzese, è già pronta a sedersi al tavolo dei negoziati con l’Ue. Il suo compito in Europa è semplice: la Scozia e l’Ue hanno intenzioni comuni, dunque la relazione è vantaggiosa per entrambi. Ma il potere di Sturgeon, per il momento, è subordinato a quello di Westminster: qualsiasi decisione può essere revocata centralmente. Una ragione in più per chiedere l’indipendenza.
L’Irlanda del Nord scalpita; la pace è recente e le ferite ancora fresche. La volontà di rimanere c’è, ma adesso la (piccola) Gran Bretagna le forza la mano. Belfast vorrebbe decidere da sé il suo futuro. Troppe intrusioni hanno rallentato la stabilizzazione, adesso è arrivato il momento costituzionale, con la «C» maiuscola: dentro o fuori dall’Ue importa meno di come definire la propria identità politica.
Poi c’è Londra: in massa ha votato per un nuovo sindaco che incarna il multiculturalismo, Sadiq Khan. È la capitale europea di fatto; ha votato per restare, ma è stata messa in minoranza dal resto del Paese.
Galles e Inghilterra, terre di nessuno; la Thatcher fece piazza pulita delle miniere e delle industrie pesanti. Da allora il nulla. Da allora, la rabbia e l’odio per quelli che governano e per quelli che attraversano la Manica per cercare l’Eldorado: i polacchi e gli altri est-europei. La colpa deve essere accollata a qualcuno, dopo tutto…
Oltre alla cecità della working class ci sono poi altri fattori. Gli inglesi più anziani hanno votato in massa per il Brexit: ricchi o poveri che siano, non gradiscono sempre il progresso sociale e si ritrovano spaesati in un Paese multiculturale e multi-linguistico. Non utilizzano internet, e ne hanno paura. I giovani non hanno questi problemi, ma non sono andati a votare.
All’interno del partito conservatore adesso è guerra. L’anima pro-europea non è mai andata d’accordo con quella sovranista. Mentre i conservatori scellerati temporeggiano in attesa di illuminazione, il resto del Paese sogna un futuro diverso. La Scozia sogna l’indipendenza all’interno dell’Ue; l’Irlanda del Nord spera di mantenere la pace e rinforzare l’autonomia dalla Gran Bretagna, magari riavvicinandosi alla Repubblica d’Irlanda all’interno dell’Europa. Anche Londra sogna, desiderando di fatto restare una capitale europea: merita molto più dei mediocri politici che hanno giocato col fuoco, come Cameron, o dei vari Johnson, Gove e altri, rapaci arpie pronti a vendere il Paese pur di avere un riscontro personale.
In questo scenario tutto è possibile. Il popolo ha seguito i pifferai magici. Adesso nelle strade si canta Rule Britannia, ma non ci si rende conto che l’impero non esiste più, che la povertà non scomparirà con un colpo di bacchetta, e che l’odio verso gli immigrati è solo un capro espiatorio. Un giorno queste persone si sveglieranno, e scopriranno che il Regno è ormai disunito.
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